Il problema dell’Europa non sono i migranti o la lite tra Italia e Francia. Ci sono altri problemi molto più densi di conseguenze, tra i quali il Patto di stabilità e la questione tedesca. I due temi sono legati: la Germania è in crisi e deve ritrovare una linea perché ha perso la sua centralità nella globalizzazione. Prima era il volano europeo posto tra Stati Uniti e Asia. L’accordo sull’energia con la Russia che ha fatto potente la manifattura tedesca (e in subordine anche la nostra) non risale ad Angela Merkel ma viene da prima: dalla Ostpolitik di Willy Brandt.

Ciò significa che il gas russo fluiva copioso e a basso prezzo fin dall’epoca dell’Urss di Breznev. Tutti in Europa ne hanno beneficiato, salvo forse i francesi che da tempo propendono per l’autonomia strategica, mediante il nucleare civile e militare. Bonn prima e Berlino poi si sono costruite sull’ipotesi che con l’Urss/Russia la pace avrebbe avuto il volto del commercio e della prosperità. Tutti lo credevano allora, tutti puntavano su questo, salvo qualche dubbio americano che si è andato rafforzando davvero soltanto dopo l’emersione cinese.

Nel corso del tempo la Germania ha aggiunto un’altra freccia al suo arco economico-commerciale: le esportazioni in Asia e soprattutto gli accordi con Pechino.

Roberto Brunelli ha già spiegato bene su queste pagine la struttura economica tedesca di questi tre decenni. Osserviamone le valenze geopolitiche: nel medesimo lasso di tempo la Germania è divenuta la più forte potenza manifatturiera globale in termini relativi. Il suo surplus commerciale rappresenta la metà di quello cinese, con una popolazione molto inferiore (80 milioni contro 1,5 miliardi).

È questo il fatto che ha reso tese le relazioni con gli Usa: negli anni Ottanta questi ultimi erano appena riusciti a vincere la concorrenza giapponese (asian values, circoli di qualità, polemiche sui giapponesi che copiano le nostre tecnologie, ecc.), ma si ritrovano quella cinese a partire dalla fine degli anni Novanta. La Germania a quel punto fa una scelta filo Pechino, stringendo un fortissimo patto tecnologico-commerciale a cui gli americani reagiscono molto male. Ecco perché Barack Obama e Angela Merkel non andavano d’accordo. Ecco perché abbiamo scoperto che gli Usa spiavano il cellulare della cancelliera: era considerata un avversario economico.

Piazzata al centro di un triangolo perfetto tra Berlino (e l’Europa), Mosca e Pechino, la Germania in questi ultimi venti anni ha dettato la sua linea: rimandare la transizione ecologica (e dunque energetica), sfruttando il basso costo del gas (definito impropriamente come transizione verso la green economy); tenere legata la Cina al sistema economico globale. La polemica tra Italia e Germania sull’ufficializzare o no quella cinese come “economia di mercato” è tutta qui. In tale contesto anche un bel pezzo dell’economia degli Stati Uniti si è accodata.

Forse Angela Merkel non era benvoluta alla Casa Bianca, ma a Wall Street lo era eccome. Nel resto dell’Europa ci si è adattati senza fare troppe domande, salvo i dubbi di Parigi, troppo debole per proporre qualcosa di alternativo. Stracciarsi le vesti ora contro la Merkel sa molto di opportunismo: era questa l’idea comune nella globalizzazione, basata sul dogma liberista che il mercato e la crescita avrebbero risolto tutti i problemi. La Germania ha sfruttato meglio degli altri la sua posizione geografica e la sua forza produttiva. Il vero errore commesso non è stato legarsi troppo al gas russo o all’industria cinese: il vero errore è stato rimandare la transizione verde per restare nella “comfort zone” dei bassi costi energetici.

È la stessa questione della riduzione delle emissioni: sappiamo che dobbiamo farlo ma rimandiamo continuamente. Su questo in occidente siamo tutti responsabili. Gli americani infatti non propongono una svolta green (con conseguente sforzo di ricerca tecnologica) ma soltanto di venderci il loro gas a 5 volte tanto: ecco perché era facile obiettare alle insistenze di Obama. La concorrenza tra parti dell’occidente è stata un’arma nelle mani di Pechino, che decideva di volta in volta chi favorire. Quando Donald Trump ha preso in mano le redini di Washington, è stato molto chiaro sulla competizione con Pechino: trovava il G7 obsoleto ma parlava coi tedeschi di Cina, accettando in buona sostanza gli accordi energetici con Mosca.

Dialogo fra Biden e Xi

Al di là dei toni, la posizione del partito repubblicano Usa è schierata in difesa della manifattura nazionale e quindi contro la Cina e contro una fase troppo liberalizzata della globalizzazione. La strategia dei democratici invece è più ideologica, ancora legata all’idea (tramontante) della globalizzazione.

Ciò che i repubblicani possono digerire, ma non i democratici, è la sfida russa: territoriale, sui confini e sull’equilibrio militare (e nucleare).

Come ormai sappiamo, la storia non era finita e purtroppo dal suo fondo oscuro è riemerso il mostro del nazionalismo grande-russo che ci ha smentiti tutti. Come europei dovremmo diffidare sempre dei nostri nazionalismi – anche del più piccolo – di cui conosciamo la capacità distruttiva che ha quasi cancellato questo continente nel secolo scorso. Quello grande-russo è un nazionalismo ferito e feroce, di cui si è molto scritto in questi mesi sui media. La sua riemersione ha rimesso in discussione tutti gli equilibri europei. La Germania ha perso di colpo la sua centralità tranquilla e ora deve reinventarsi.

Si tratta del principale problema politico della Ue: i suoi alleati e vicini devono aiutarla in tale transizione che ci riguarda e ci coinvolge. È il senso del viaggio del cancelliere Scholz a Pechino, alla ricerca di una revisione del partenariato. I cinesi avranno la flessibilità politica necessaria per capirlo e giocare una nuova partita?

Anche l’incontro tra Xi Jinping e Joe Biden porta elementi di novità: dialogare per ricostruire una coerenza che si è rotta.

Gli americani sapranno sfruttare l’occasione senza apparire ossessionati dall’egemonia unilaterale? La questione tra America e Cina sta nella visione del mondo: rifondare i fondamenti di un multipolarismo accettabile per entrambi, con il conseguente multilateralismo che ne potrebbe scaturire.

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