«State al sicuro: restate a casa». Dall’inizio della pandemia, questo è il messaggio lanciato da governi e media di tutto il mondo. Ma la casa è davvero un luogo sicuro? C’è una piaga che vive nei luoghi dell’intimità, da cui né i disinfettanti né le mascherine mettono al riparo: la violenza contro le donne. I dati che fornisce l’Istat parlano chiaro: in Italia il 62 per cento degli stupri, ma anche la maggior parte delle violenze fisiche (come gli schiaffi, i calci, i pugni o i tentativi di strangolamento) sono da attribuire a partner o ex partner. Uomini quindi che con le donne vivono o hanno vissuto, che possono continuare ad avere accesso alla loro vita, magari attraverso il rapporto con i figli.

Nel primo 25 novembre dell’era pandemica, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne è l’occasione per fare il punto su un anno difficile. I dati raccolti durante il lockdown di primavera e i mesi successivi hanno rivelato infatti la vastità e l’aumento di gravità del problema.

L’Istat ha analizzato il dataset delle chiamate al numero verde nazionale antiviolenza 1522, rilevando nel periodo compreso tra marzo e giugno 2020 un aumento del 120 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Anche i centri antiviolenza, il principale presidio territoriale per l’aiuto alle vittime, dopo una prima fase di contrazione dei nuovi contatti hanno registrato un sensibile incremento delle richieste d’aiuto, come mostra uno studio del Cnr-Irpps.

Dai dati del Ministero dell’Interno scopriamo che, se il periodo di confinamento ha influito positivamente sul numero totale degli omicidi, non è andata così per i femminicidi: tra marzo e giugno, ogni due giorni una donna è stata uccisa in famiglia.

All’origine dell’aggravarsi del problema non c’è solo il confinamento in casa, ma anche la diminuzione degli accessi a servizi “sentinella” come i pronto soccorso, dove si teme il rischio di contagio, o luoghi di socializzazione come le scuole, in cui possono emergere segnali di violenza intrafamiliare.

Un fenomeno strutturale

Il Covid-19 e le misure di prevenzione del contagio hanno funzionato insomma come un reagente capace di mostrare la dimensione del fenomeno. Un fenomeno che non ha carattere eccezionale ma, come ribadito da tutta la normativa internazionale sul tema, è di natura «strutturale».

Cosa significa che la violenza è «strutturale»? Significa che ha radici nella diseguaglianza, nei rapporti di forza storicamente diseguali tra i generi. In questo senso, la violenza che colpisce ad ogni angolo del globo è una pandemia che dura da millenni. A farne le spese sono donne di ogni nazionalità, condizione sociale, livello di istruzione o professione. A commetterla sono uomini comuni, quelli di cui il vicino di casa dice «salutava sempre», o di cui i media celebrano le virtù di «imprenditore di successo».

Come scrive la sociologa Cristina Oddone nel suo Uomini normali. Maschilità e violenza nell'intimità, gli autori stessi di violenza si definiscono così: «si dichiarano “uomini normali”, nel senso di “non-devianti” e di “conformi alla norma (eterosessuale)”, a conferma della generale concezione della violenza maschile come espressione del “normale” ordine di genere e delle norme culturali dominanti». Da qui anche la dimensione dell’impegno necessario al cambiamento.

Una “cura” in realtà esiste, ed è nota, risiede nelle 4 P della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa: prevenzione, protezione, procedimento contro i colpevoli e politiche integrate. Non è la scarsità di conoscenze, ma la mancanza di una seria volontà politica a impedire di mettere in atto tutto ciò che è necessario al suo contrasto. 

I fondi dimenticati

Il problema, lungi dall’essere una peculiarità italiana, è osservabile in tutta Europa. L’Istituto europeo per l'uguaglianza di genere ha analizzato i trend e le risposte dei governi durante l’epidemia, parlando di un supporto patchy, ovvero frammentario, discontinuo, alle donne vittime di violenza nelle relazioni di intimità. Nel nostro paese, un sistema cronicamente sotto-finanziato come quello dei centri antiviolenza, che si regge largamente sul lavoro volontario, è andato rapidamente in crisi. Le istituzioni si sono mosse tardi e con difficoltà, non riuscendo a dotare questi presidi degli strumenti e degli spazi necessari a garantire la continuità del servizio.

Se questo in primavera poteva giustificarsi con il carattere inaspettato della prima ondata, oggi, nella seconda ondata, l’impreparazione non sembra tollerabile. E offende ogni buonsenso scoprire, attraverso il rapporto di monitoraggio pubblicato pochi giorni fa da Action Aid, che dei 30 milioni di fondi antiviolenza ripartiti tra le Regioni dal Dipartimento per le Pari Opportunità, e destinati con decreto di aprile anche a coprire le spese dell’emergenza sanitaria, solo il 10 per cento è stato effettivamente liquidato. A distanza di sei mesi, solo cinque Regioni hanno erogato fondi: Abruzzo, Friuli Venezia-Giulia, Lombardia, Molise e Veneto.

Se non sapessimo tutto questo, saremmo tentati di parlare di un’emergenza nell’emergenza, quando affrontiamo il problema della violenza contro le donne. Ma poiché tutto questo lo sappiamo, non possiamo che chiamare con il suo nome la grave sottovalutazione istituzionale del fenomeno.

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