In questo momento storico la tensione tra il politicamente e lo scientificamente corretto si manifesta con evidenza nei dibattiti sulle problematiche di genere, che si palleggiano fra le contrapposte posizioni delle “scienze” sociali e delle scienze naturali. La confusione deriva in parte proprio dal pessimo andazzo di chiamare “scienza” qualunque disciplina, comprese quelle che di scientifico non hanno proprio niente: né i metodi, né le posizioni.

La differenza più radicale fra le “scienze” sociali e quelle naturali sta nel fatto che le prime, che sono spesso prede e vittime del post-modernismo, tendono a rifiutare qualunque categorizzazione, comprese quelle di genere, mentre le seconde si fondano sulle categorizzazioni, comprese quelle sessuali. Il dibattito sulle categorizzazioni non è comunque una novità, ed è anzi soltanto una versione moderna della famosa disputa medievale sugli universali: i post-moderni di oggi la pensano infatti come i nominalisti di ieri, e sostengono che i termini astratti siano soltanto espressioni linguistiche (post rem), e non corrispondano a una realtà concreta (in re).

Soggettività o oggettività

Nel caso dei generi, la questione degli universali si traduce nella domanda se i raggruppamenti di individui, effettuati in base a caratteristiche sessuali, siano sempre e soltanto costruzioni mentali soggettive, come pensano appunto le “scienze” sociali, o se questi raggruppamenti siano spesso reali e oggettivi, come pensano invece le scienze naturali. La questione, lungi dall’essere univoca, dipende dai linguaggi usati per formulare la domanda, e dai criteri e dai metodi adottati per fornire la risposta, che sono molto diversi nelle “scienze” sociali e nelle scienze naturali.

La sociologia, ad esempio, ha facile gioco nell’ammettere di non poter distinguere i generi in base ai propri criteri, che sono mutevoli e instabili, oltre che vaghi e indefiniti, essendo basati sui comportamenti individuali e sulle relazioni sociali, che spaziano dalle abitudini sessuali all’abbigliamento. Dal canto suo, la psicologia si imbatte in difficoltà ancora maggiori quando sostiene che, per decostruire il genere, basta notare che un individuo può percepirsi in maniera diversa da come appare agli altri, e che questo è tutto ciò che conta.

Questa separazione dell’essenza di una persona dai suoi accidenti costituisce un ritorno alla nozione aristotelica di sostanza, come ha giustamente osservato su Domani il 19 luglio Raffaele Alberto Ventura: sminuendo, però, il fatto che quella nozione non soltanto è ormai anacronistica, ma è stata completamente screditata dalla scienza, fin dal suo nascere.

Come Ventura ricordava correttamente, la nozione di sostanza aristotelica rivela ancor oggi tutta la sua problematicità nella dottrina cattolica della transustanziazione, secondo la quale l’ostia consacrata muterebbe la propria sostanza nel corpo di Cristo, pur mantenendo invariati tutti gli attributi del pane. Non a caso la dottrina fu messa in crisi nel Seicento dal nascente atomismo scientifico, professato da Galileo nel Saggiatore (1623): addirittura, Pietro Redondi ha sostenuto in Galileo eretico (1983) che fu proprio la critica dello scienziato alla nozione aristotelica di sostanza a metterlo nei guai con la Chiesa, più che l’eliocentrismo.

La difesa dell’identità di genere in base alla sua concordanza con la filosofia aristotelica, in generale, e con la nozione di sostanza, in particolare, è dunque un “rattoppo peggiore del buco”, e costituisce semmai un argomento a suo carico e colpa, invece che a suo discarico e discolpa. E incominciare a insegnare l’ideologia di gender a scuola non sarebbe meglio che continuare a insegnare il dogma della transustanziazione. Di ore di religione ce ne basta una, e sarebbe molto più sensato pensare di abolirla, invece che di raddoppiarla!

Oggi gli scienziati vengono messi a tacere dai social media, invece che dal Santo Uffizio, ogni volta che si azzardano a dire che i generi “eppur ci sono”, o attirano l’attenzione sulle difficoltà di casi come quello di Bruce Jenner, invece che parlare dell’ostia consacrata. Per chi non lo conoscesse, Jenner è stato un grande decatleta, tre volte detentore del record mondiale e medaglia d’oro alle Olimpiadi di Monaco del 1976: ha sempre provato attrazione sessuale solo per le donne, ne ha sposate tre e ha avuto sei figli da loro, ma dichiara di essere mentalmente una donna. Jenner è oggi la più famosa transgender del mondo, ed è apparsa in innumerevoli programmi televisivi americani. Ma ci sono casi meno noti di donne che dicono seriamente di sentirsi gatte, e almeno una, di nome Jocelyn Wildenstein, ha effettuato una serie di costosissime operazioni chirurgiche per acquistare un’apparenza felina.

I casi di Jenner e Wildenstein non differiscono tra loro dal punto di vista logico, essendo entrambi affidati unicamente alle autopercezioni dei soggetti interessati. Ma mentre molti concedono alla transgenericità almeno il beneficio del dubbio, pochi sono disposti a considerare la transpecificità un fenomeno reale, al di là della mitologia di Romolo e Remo o della letteratura di Mowgli. Forse il diverso atteggiamento deriva dal fatto che persino i post-moderni concedono alla specie umana un’oggettività che negano ai suoi generi.

Ma come la pensa la scienza, a proposito del genere? Anzitutto, la morfologia esterna permette di classificarli approssimativamente sulla base degli organi genitali, come si fa nell’atto di nascita. L’anatomia fornisce criteri aggiuntivi di classificazione, che vanno dagli organi riproduttivi interni, all’ossatura e alla muscolatura: ad esempio, i medici legali e gli antropologi riescono spesso a risalire al genere di un individuo, anche a partire da piccoli frammenti del suo scheletro.

Il parere della scienza

Significativamente, le classificazioni anatomiche risultano spesso sovrapponibili a quelle morfologiche: ad esempio, negli sport gli uomini e le donne competono separatamente.

Dal canto suo, la biochimica permette una valutazione più sofisticata delle differenze di genere mediante la valutazione dei livelli ormonali del testosterone, del progesterone e degli estrogeni. È appunto su questi ormoni che agiscono le terapie farmacologiche per il cambiamento di sesso, e si basano i protocolli ufficiali di rilevamento dei livelli ormonali per gli atleti maschi transgender che partecipano alle competizioni femminili.

È comunque alla genetica che tutte le classificazioni oggettive degli esseri viventi devono ridursi, in ultima analisi. Nelle specie sessuate il genere è determinato dai cromosomi sessuali, che nell’uomo sono di due tipi: uno neutro (X) e uno maschile (Y). I maschi hanno una copia di ciascuno (XY), e le femmine due copie di quello neutro (XX): il sesso è dunque determinato in via maschile, tramite la presenza o l’assenza del cromosoma Y, e non si può cambiare, almeno fino a quando non ci saranno terapie geniche in grado di permetterlo.

Non sembra ci sia però un collegamento tra le tendenze e i comportamenti sessuali che portano alle problematiche di genere e le variazioni atipiche dei cromosomi sessuali. Ad esempio, gli individui con soli cromosomi X sono tutti femmine: normali, se ne hanno due o più, e portatrici della sindrome di Turner, se ne hanno uno solo. Analogamente, gli individui con almeno un cromosoma X e uno Y sono tutti maschi: normali, se hanno un solo cromosoma X, e portatori della sindrome di Klinefelter, altrimenti. Non ci sono invece individui con soli cromosomi Y, perché non sopravvivono.

Come si vede, i problemi sollevati dalla nozione di identità di genere sono variegati, e le vaghe posizioni dei sociologi e gli psicologi si contrappongono nettamente a quelle precise dei fisiologi, degli anatomisti, dei biologi e dei genetisti. Il dibattito sulla proposta di legge Zan non è dunque una contrapposizione fra la destra e la sinistra, come tendono a presentarlo i media, ma fra le “scienze” sociali e le scienze naturali. Il che spiega come mai, anche a sinistra, molti siano a disagio con l’ideologia gender. E non sarebbe male che anche loro potessero parlarne serenamente, senza dover per forza dover dimostrare la fedeltà alla propria “squadra”, come se si trattasse soltanto di una partita di calcio giocata allo stadio, invece che di un dibattito da fare in parlamento.

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