Siamo entrati in un'epoca in cui i dati non sono soltanto la bussola che orienta le nostre decisioni, ma la materia prima con cui costruiamo il futuro. Eppure, dimentichiamo spesso che i dati non sono mai neutri: portano con sé le intenzioni, i pregiudizi e le assenze di chi li producono. In un mondo in cui gli algoritmi modellano realtà e potere, la loro metà mancante, quella femminile, ma anche quella della complessità, della cura e della visione sistemica, pesa più che mai.
In Europa le donne rappresentano il 51 per cento della popolazione, ma solo una su tre tra i laureati Stem.

In Italia, meno del 17 per cento sceglie discipline scientifiche e, nel settore tecnologico, la disparità salariale supera il 25 per cento. I numeri, qui, non sono statistiche: sono sintomi di un futuro progettato con una sola parte dell'intelligenza umana. Se gli intelletti che costruiscono i modelli digitali sono già sbilanciati al maschile, anche il futuro che quegli algoritmi disegneranno rischiando di esserlo.

I modelli cognitivi 

Oggi non programmiamo più soltanto macchine: alleniamo modelli cognitivi. L'atto di scrivere codice si è trasformato in qualcosa di più sottile, il prompt design, una nuova grammatica tra umano e algoritmo. Ogni volta che interagiamo con un sistema di intelligenza artificiale, non poniamo semplicemente una domanda: costruiamo un contesto, definiamo un'intenzione, diamo forma a un significato. In questo senso, il suggerimento non è solo una tecnica, ma una vera e propria filosofia cognitiva: la capacità di modellare il pensiero attraverso il linguaggio. Il futuro non sarà scritto nei linguaggi di programmazione, ma nelle domande che sapremo formulare.
Un recente esperimento sociale sull'interazione uomo–macchina lo ha mostrato con chiarezza. A un gruppo di persone è stato chiesto di porre alla stessa intelligenza artificiale una domanda identica: «Perché esploriamo lo spazio?».

Le risposte, diversissime, non dipendevano dall'algoritmo, ma dal modo in cui ciascuno aveva formulato la domanda. Alcuni hanno indagato i benefici tecnologici, altre le implicazioni umane e filosofiche. Due approcci, due visioni cognitive del mondo. Quando queste prospettive si incontrano — la precisione di chi costruisce e la profondità di chi riflette sul senso — la tecnologia cessa di essere solo strumento di conquista e diventa esercizio di consapevolezza: non più andare oltre, ma comprendere perché e per chi valga la pena arrivarci.

La vera sfida non è soltanto aumentare la presenza femminile nei numeri del tech, ma esserci nei modelli, nei codici, nelle decisioni, nelle domande. Perché se i modelli predittivi orientano le scelte, se gli algoritmi decidono cosa è visibile e cosa no, allora la loro architettura cognitiva — ciò che includono e ciò che escludono — diventa una questione di democrazia. Non possiamo permettere che il futuro venga scritto da metà dell'umanità per l'altra metà.

Le donne nella tecnologia 

Le donne portano nella tecnologia qualcosa di più della rappresentanza: portano un altro modo di pensare il dato. Dove il paradigma maschile tende all'ottimizzazione, quello femminile spesso introduce la dimensione del senso: l'attenzione al contesto, l'intuizione, la capacità di leggere le eccezioni più che la media. Per innovare davvero non basta la potenza di calcolo del quantum computing: serve potenza di senso — la capacità di unire logica e intuizione, precisione e visione, calcolo e significato.
L'altra metà dell'algoritmo siamo noi. Non solo le donne, ma tutti i pensieri che non trovano ancora spazio nei dataset, nei modelli, nelle scelte di chi costruisce l'intelligenza artificiale. Essere presenti, nei numeri, nei codici e nelle decisioni non è una battaglia di genere: è una questione di qualità cognitiva del futuro.
Credo in un domani in cui uomini e donne, insieme, allenino modelli più inclusivi, più curiosi, più umani. Perché il domani non si prevede: si scrive. E abbiamo la responsabilità che chi lo scrive lo faccia con tutte le intelligenze.

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