Ha ragione da vendere Piero Ignazi quando su Domani scrive che l’antisemitismo è essenzialmente un problema della destra. Così come ha ragione nel dire con fermezza che le destre che sono oggi al governo in Italia hanno flirtato e flirtano, a volte alla luce del sole, a volte in modi subdolamente più riparati, ma non meno efficaci, con gruppi esplicitamente antisemiti. E indubbiamente ha anche ragione nel connettere il seme dell’antisemitismo con gli atteggiamenti razzisti nei confronti dei migranti e di coloro che non possono vantare quella connessione di terra e sangue che anima le culture nazionaliste e identitarie sempre più forti oggi in Europa.

Detto questo, se ci si ferma qui, il discorso rischia di essere anche una semplificazione che non aiuta a capire le cose di cui discutiamo in questi giorni. E soprattutto rischia di apparire come una sorta di rabbiosa autoassoluzione che non è forse il modo migliore per fare i conti con un elemento problematico che ha attraversato in modo niente affatto banale o trascurabile la grande cultura europea, compresa quella universalistica e includente che nasce dall’illuminismo e che è alla base di ciò che ancora chiamiamo “sinistra”.

Il fatto che in un sondaggio solo il 3 per cento degli intervistati abbia detto di essere d’accordo con Hamas, ci dice in realtà davvero quasi nulla rispetto all’antisemitismo o anche rispetto all’anti-israelismo, che è categoria forse più vicina alla sensibilità dei giorni che stiamo vivendo. Se c’è una cosa che è tipica dei pregiudizi, come è noto, è proprio quella di non apparire, di nascondersi, di vivere perlopiù dentro anfratti discorsivi talora marginali, laterali, apparentemente estranei alla cosa in questione.

Mi sia consentito un riferimento personale: mio padre, uomo fieramente di sinistra, mi raccontava di quanto fosse stato difficile per lui, cresciuto dentro una educazione cattolica onnipervasiva, liberarsi dell’idea dell’ebreo deicida, disposto a tradire il Messia, e dunque chiunque, per denaro. Lo aiutò molto leggere La gloria di Giuseppe Berto e poi, molti anni dopo, il Giuda di Amos Oz. Eppure – mi diceva – anche contro me stesso, contro le mie più ferme convinzioni, quell’idea continuava in qualche modo a vivere dentro di me.

Nel 2007 Gadi Luzzato Voghera, figlio di Amos Luzzato, “l’ebreo di sinistra”, come veniva chiamato, pubblicò per Einaudi un piccolo libro, che produsse non poche discussioni e polemiche e che si intitolava, significativamente, Antisemitismo e sinistra. In esso, lo storico, oggi direttore del Centro di documentazione ebraica contemporanea, denunciava l’assenza nella sinistra di una attenta analisi rispetto a una serie di stereotipie e classificazioni politico-culturali che innervano il suo discorso politico e che si muovono in una zona di confine con l’antisemitismo.

In particolare – questa la tesi impegnativa di Luzzato Voghera – la sinistra non si sarebbe interrogata fino in fondo sulla ragione per cui i processi di emancipazione e di integrazione degli ebrei nella società europea siano stati accompagnati da virulenti attacchi alla cultura e alla tradizione ebraica.

Questo avrebbe comportato – scriveva – «l’incapacità dei movimenti progressisti di riconoscere e combattere al proprio interno l’esistenza di aspetti e correnti che anche apertamente si richiamavano all’uso di un linguaggio antisemita» indebolendo in tal modo quell’universalismo, che, come ricorda Ignazi nel suo articolo, costituisce uno degli elementi fondanti delle culture progressiste. A sinistra, scriveva ancora Luzzato Voghera, «troppo spesso si fatica a riconoscere questi elementi, e quando vengono identificati si ha la tendenza a condannarli come estranei alla cultura politica della sinistra stessa».

Si cerca in questi giorni, giustamente, di distinguere nel modo più rigoroso possibile il discorso critico nei confronti di Israele da un discorso antisionista, che caratterizza molti dei movimenti della sinistra filopalestinese e da uno invece esplicitamente antisemita.

Ma questa operazione di distinzione trova la sua giustificazione proprio nel fatto che i limiti che separano questi concetti sono frastagliati, porosi, caratterizzati da zone di intersezione che li rendono giocoforza ambigui. E sostare dentro queste zone di confine, nelle zone d’ombra della lingua e del pensiero è importante e necessario. Perché è lì che si annidano i pregiudizi, i quali agiscono a volte, anzi soprattutto, anche nelle azioni caratterizzate dalle migliori intenzioni.

© Riproduzione riservata