Il risultato politico ed elettorale delle presidenziali 2020 è ormai chiaro. Anche se il verdetto sul numero di grandi elettori che comporranno il collegio che formalmente eleggerà il presidente degli Stati Uniti dipenderà da questioni legali e amministrative. Nelle more è comunque possibile evidenziare alcuni punti cruciali del voto americano. Evitando, come direbbe Francesco Guccini, di «parlarsi addosso» inseguendo l’ultimo lancio di agenzia sulla Pennsylvania, la dichiarazione della Cnn et similia.

Il voto ci consegna un paese diviso, frammentato, altamente polarizzato. Si tratta di una conferma e non di un esito generato dalle urne del 3 novembre. Gli Stati Uniti sono polarizzati su vari assi. Sul piano ideologico le distanze tra repubblicani e democratici sono sempre più ampie, e anche nei due partiti l’ala radicale pesa significativamente e guida l’orientamento ideologico e le proposte di policy.

Ne consegue una crescente frattura anche all’interno del Congresso in cui il voto sul merito è stato fagocitato dalla disciplina di partito, per cui anche su temi trasversali contano di più le appartenenze che le politiche. Per dare contezza di tale distanza, si consideri che per la prima volta nella storia recente la nomina presidenziale di un giudice della Corte suprema federale (Amy Coney Barrett) è stata confermata dal Senato senza nemmeno un voto dei democratici (Scalia fu votato da 98 senatori).

Lo stesso accade sulla sanità, con l’Obama Care che è divenuto un tema da crociata ideologica tra sedicenti liberisti e presunti propugnatori del socialismo reale. I diritti civili, ferita sanguinosa sin dal capolavoro politico abolizionista di Abraham Lincoln, permangono quale frattura sociale, con tensioni crescenti fra gruppi etnici.

A questo si aggiunga la potente segregazione economica e sociale tra l’1 per cento della popolazione che detiene quasi tutto e la base che accede a malapena al poco (tra il 1974 e il 2016 l’indice di Gini è passato da 0,34 a 0,41). La disuguaglianza aumenta tra gruppi etnici con le famiglie bianche dieci volte più benestanti di quelle nere e meno investite dalla disoccupazione (14 per cento vs 18 per cento secondo il dipartimento del Lavoro). Non solo, quest’ultime rischiano tre volte di più di finire nelle maglie della povertà (8 per cento di possibilità tra le famiglie bianche, 21 per cento tra quelle nere). E come conseguenza una disparità anche nel fato: i neri sono il 23 per cento dei morti per Covid a fronte del 13 per cento del loro peso sull’intera popolazione americana.

Centro e periferia

Il voto ha poi esacerbato la distanza tra città e campagna, tra centro e periferia. Tra zone rurali e urbane, ma anche tra aree geografiche del paese. Una segregazione persino urbanistica, con contee in cui è praticamente impossibile incontrare un diverso da sé sul piano politico-ideologico. Solo il 3 per cento ha scelto chi votare nell’ultima settimana prima del voto, a conferma del processo di auto configurazione e consolidamento della identità, come pure evidente dalla rappresentazione dicotomica fatta dalle principali televisioni, Fox e Cnn. Una auto reclusione entro confini valoriali simili per escludere l’altro.

La mappa elettorale pone benissimo in evidenza che esistono e persistono due Americhe: quella del voto nelle grandi città, dove i democratici surclassano gli avversari con percentuali da regimi autoritari, e viceversa aree in cui i candidati del Partito repubblicano travolgono ogni possibile sfidante. Da anni. In Alaska, Idaho, Nord e Sud Dakota, Nebraska, Oklahoma, Utah, Wyoming i repubblicani vincono ininterrottamente dal 1972. L’ultima volta che i democratici hanno vinto in Georgia è stato nel 1992. Il Partito democratico è un partito urbano, mentre il Grand old party conserva un tratto “nazionale”, ossia più diffuso e omogeneo.

Due spaccati sociali

Esistono insomma due Americhe, due spaccati sociali degni di un romanzo di Philip Roth. Del resto per predire il voto il tema più significativo, capace di orientare le scelte di campo, è l’atteggiamento verso l’aborto. Con i favorevoli decisamente pro democratici e i contrari pro repubblicani, specialmente nella componente evangelica. Cui Trump ha dato fiato, legittimazione politica e copertura culturale partecipando alla marcia del movimento pro life e non rinnegando le esaltazioni di odio sociale e ideologico dei negazionisti e suprematisti bianchi e dei complottisti di QAnon (la fanatica Jo Rae Perkins è stata eletta senatrice in Oregon).

Ma se l’America socio-politica del 2020 in parte è un mix, una dicotomia tra l’atmosfera rurale dell’American Gothic e uno scorcio newyorkese à la Woody Allen, dal punto di vista istituzionale, la prospettiva è meno lacerata. Il sistema sta dando prova di solidità, e i ritardi e le complessità appaiono tali solo agli occhi di osservatori disattenti.

La strutturazione del sistema politico istituzionale secondo la celebre formula del separate institutions sharing powers andrebbe ripetuta come un mantra per evitare di cedere a mitizzazioni ovvero a semplificazioni da provincia. Il presidente uscito da questo voto sarà probabilmente indebolito dal fatto di non avere la maggioranza omogenea in una delle due assemblee. Ma questa è una costante del governo Usa: dal 1968 a oggi in quasi tre quarti dei casi (il 61 per cento dal 1945) si sono contrapposti un presidente e un Congresso di colore politico diverso. Anche in virtù delle elezioni di metà mandato che ogni due anni ri-mettono in discussione gli equilibri politici in quella che è definita “campagna elettorale permanente”.

Una situazione che ha l’effetto benefico di responsabilizzare gli eletti e consente di ri-bilanciare l’equilibrio tra poteri. Non va dimenticato poi l’assetto federale, sia per leggere le dinamiche politiche e istituzionali, ma anche per comprendere meglio la corrente situazione di potenziale stallo nel ri-conteggio dei voti, postali e non (con annessi ricorsi giudiziari minacciati o promessi). Ciascun stato (a volte anche le contee) ha una legislazione elettorale, inclusa la possibilità di disegnare, arbitrariamente, i collegi della Camera con conseguente consolidamento del circuito di demarcazione delle identità e delle appartenenze politiche e partitiche su basi territoriali (gerrymandering).

La Corte suprema

Divisioni sono poi presenti anche all’interno della Corte suprema (sei giudici su nove sono di nomina repubblicana) e potrebbero in realtà essere mitigate dalla volontà di non essere/non apparire partisan da parte dei giudici. I quali nominati a vita tendono a liberarsi dalla “camicia” elettorale cucita addosso dalla scelta presidenziale, con maggiore facilità quando si occupano di temi non etici.

Il voto 2020 ha certamente creato una polarizzazione attorno ai due candidati non solo in virtù del sistema elettorale, ma anche in ragione del profilo del presidente uscente, su cui si è giocato un vero referendum.

Aggiuntivo elemento di frattura e divisione. Biden ha vinto nel voto popolare, una tendenza che vede i democratici prevalere tra gli elettori dal 1992, con l’eccezione del 2004. La partecipazione elettorale è stata elevata, quasi il 70 per cento, la più consistente dal 1920, quando il XIX emendamento costituzionale ha introdotto il suffragio universale, e 15 milioni di elettori in più rispetto al 2016.

Gli americani hanno voglia di politica, partecipano, scendono in campo, elargiscono donazioni, fanno attività di volontariato nei partiti e per i partiti, agiscono in campagna elettorale, nutrono cioè la democrazia anche attraverso la militanza. Altroché partiti liquidi, come qualcuno li aveva sbeffeggiati, non conoscendoli. L’Europa ha molto da imparare dal modello americano quanto a virtù da coltivare e vizi da bandire. Seppur in un paese diviso il motto nazionale americano vale sempre: E pluribus unum.

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