Scriveva Immanuel Kant in Pace perpetua: «La guerra elimina meno malvagi di quanti ne crea». Molto probabilmente è quanto sta capitando a Israele, così come ai palestinesi. Siamo davanti a una spaccatura violenta all’interno delle due società. Israele da tempo si scontra con il suo doppio: una specie di super Israele estremista che nulla vuole negoziare preferendo il suprematismo colonizzatore. Il ministro dell’ultra destra Smotrich sta destinando 120 milioni di euro ai coloni, dei quali 80 per la fornitura di armi alle “squadre di guardie civili”.

La conseguenza è una spaccatura tra esercito regolare (Tsahal) e milizie dei coloni (il super Israele appunto), che divide il paese in due con effetti gravissimi per la tenuta stessa dello stato. Anche la Palestina è profondamente scissa tra i sostenitori di Hamas (che ha ridato orgoglio, pur se sporco di sangue innocente) e quella parte (ancora minoritaria) che riconosce l’esistenza di Israele accettando di conviverci. Il guaio è che questa seconda parte è senza nome e senza leader, addirittura senza confini politici definiti.

Asmaa al Ghoul, attivista giornalista palestinese, femminista e autrice del best seller The Rebel in Gaza, in cui racconta la sua lotta contro Hamas in favore dei diritti civili, oggi denuncia i «due pesi e due misure» dell’occidente che ha perso i suoi valori, e ammette: «Benché le nostre visioni divergano, questa guerra brutale non ci lascia altra scelta che tollerare Hamas. Quando carri, aerei e navi da guerra ci invadono (...) non resta che un solo nemico: l’occupazione».

Gli estremismi

Israele dimentica la vecchia lezione delle lotte di liberazione: non puoi mai imporre al tuo avversario la governance che vuoi; nel fuoco della lotta emerge sempre il peggiore. La polarizzazione tra i due estremismi conduce alla guerra infinita. Anche in Europa e negli Stati Uniti si compie la singolare gara che mira a giustificare le azioni di una delle due parti mediante le efferatezze dell’altra. Si tratta di un gioco a somma zero che non fa che rinfocolare l’odio e non garantisce né verità né soluzione. È l’antica storia dei due estremismi che si nutrono a vicenda: una strategia della tensione permanente, per dirla all’italiana.

Soltanto sintonizzandosi con le angosce e le sofferenze profonde di entrambi i popoli si potrà provare a capire (almeno un po’) come aiutare, senza partecipare a tale macabro gioco. Davanti all’efferatezza dell’attacco del 7 ottobre si comprende il turbamento della popolazione israeliana, la reazione emotiva dei familiari delle vittime e dei rapiti, l’impulso a farsi giustizia radicalmente, la necessità di lavare l’onta di un sistema di sicurezza fallimentare.

Ma un governo che si rispetti non può funzionare con i sentimenti. Soprattutto dopo una sconfitta, deve recuperare rapidamente lucidità per calcolare le conseguenze di ogni mossa. L’idea di sradicare Hamas è già di per sé un’illusione, tenendo conto che il favore dei palestinesi per il movimento estremista non diminuisce nemmeno sotto i bombardamenti indiscriminati di queste settimane, anzi. Anche se tutti i dirigenti e militanti di Hamas fossero uccisi, ne sorgerebbero di nuovi e probabilmente di peggiori.

L’azione militare israeliana sta producendo futuri nuovi terroristi in quantità industriale. Sarebbe razionale chiedersi cosa fare dopo l’azione militare, ma a Tel Aviv non c’è unanimità sul futuro e, peggio ancora, non sono in molti a chiederselo. Qualcuno vorrebbe restaurare un’occupazione stabile a Gaza, altri andarsene, altri ancora dividere la Striscia in pezzi, altri infine non sanno. C’è chi spera che alla fine la maggioranza dei cittadini di Gaza sarà sospinta in Egitto, svanendo nel nulla. Pia illusione che comunque non risolverebbe il tema della West Bank e dei coloni suprematisti armati. Mentre per gli israeliani l’avversione contro Benjamin Netanyahu è ormai assodata, da parte palestinese ancora c’è incertezza assoluta su chi li può rappresentare.

Ecco perché Hamas pensa di avere vinto: ha inferto un duro colpo a Israele cancellando il mito della sua invincibilità; ha scatenato una reazione che non può che favorirla sia sul piano interno che su quello internazionale; si è posta come l’unico rappresentante della causa nazionale palestinese; è riuscita a evitare condanne da parte degli stati arabi moderati.

L’isolamento di Israele

Se si votasse oggi all’Assemblea generale dell’Onu Israele sarebbe isolatissimo, con solo una parte dell’occidente a sostenerlo. Non si trova nessun altro ad appoggiarlo, anche grazie alla (pretestuosa) propaganda anticolonialista che fa apparire Hamas solo come movimento di resistenza nazionale e anticoloniale. È ovvio che è molto peggio di così, ma l’utilizzo del doppio standard è generalizzato e si applica a tutto. Inoltre Hamas si giova del suo stato ibrido a più facce.

Gli Stati Uniti hanno posto il veto al Consiglio di sicurezza sulla risoluzione Onu che chiedeva lo stop dei bombardamenti israeliani su Gaza. Abu Mazen ha reagito sdegnato pur non avendo mai condannato il terrorismo di Hamas. Anp e Hamas si odiano visceralmente, ma davanti al comune nemico fanno quadrato: una prova ulteriore dei danni della polarizzazione. Più si avvicinano le elezioni americane e meno sarà facile per Israele proseguire sulla strada della guerra totale senza prospettive: già si vocifera che gli americani a un certo punto diminuiranno il finanziamento e l’approvvigionamento in munizioni, spingendo verso le trattative. Washington non può lasciare troppo spazio a Russia e Cina in Medio Oriente (vedi il viaggio di Putin), mentre le potenze arabe che contano chiedono la pace per non favorire la linea dura di Teheran.

Sta accadendo per l’Ucraina, accadrà anche per Israele: la guerra non è il terreno delle democrazie. Si tratta di un’occasione per l’Europa di dire finalmente la sua: il ritorno a uno spirito di dialogo è il suo terreno di eccellenza.

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