Dopo un’attesa durata nove anni, il ministero della Salute ha finalmente pubblicato le linee guida sulla legge n. 40 del 2004, che regola la procreazione medicalmente assistita (Pma). E, al netto del ritardo, sarebbe il caso di salutare tale iniziativa con giubilo se davvero fosse una decisione politica. Ma non lo è. Anche in questo caso, il decisore assume le fattezze del notaio: registra cambiamenti innescati da attori che, assai impropriamente, si dicono «poveri di legittimazione politica», vale a dire le corti e la messe di cittadini che a queste si sono rivolti per avanzare pretese e rivendicazioni di cui da decenni la politica si disinteressa con indefessa ostinazione. Ma forse in tutto questo c’è di più che la neghittosità del decisore politico. Forse non è che l’ennesimo indizio di un cambiamento epocale, che sta alterando il volto della politica e che, nonostante ciò, si fatica a riconoscere: sempre più spesso le leggi, almeno nella sostanza, sono prodotte nei tribunali, e quindi ricalcate dal parlamento o dal governo quando il loro nervo crurale viene galvanizzato dalla carica elettrica delle sentenze.

Alcuni considerano questo fenomeno una stortura, un ammiccamento all’eversione giudiziaria, un segno flagrante del declino della democrazia per come l’abbiamo conosciuta finora. Eppure, questo millenarismo postdemocratico a me pare troppo allarmista.

Le linee guida

Ci si riferiva sopra a un’attesa di nove anni perché le linee guida di fatto protocollano mutamenti avvenuti nella pratica, in seguito alla batteria di ricorsi in tribunale e a due sentenze decisive della Corte costituzionale nel 2014 e nel 2015. Per richiamare uno tra i cambiamenti più significativi, la sentenza n. 162 del 2014 aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di fecondazione eterologa, quando cioè i gameti provengono da individui esterni alla coppia. Le linee guida del ministero raccolgono l’esito della sentenza, come pure i limiti di legge ivi specificati, cioè «1. la presenza della diagnosi di una patologia che sia causa irreversibile di sterilità/infertilità assolute; 2. il difetto di altri metodi terapeutici».

Il ministero, però, di quella sentenza non fa suo il forte richiamo a un’aspirazione che non s’inscrive nel solo campo della salute. In effetti, la Corte sosteneva che la genitorialità attiene al più ampio diritto «di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli» quale «espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi».

Proprio in forza di tale aspirazione, la sentenza n. 96/2015 estendeva l’accesso alla Pma anche alle coppie che, quantunque fertili, fossero portatrici di malattie geneticamente trasmissibili. Dichiarava così incostituzionale la legge n. 40 del 2004 nelle parti che non prevedevano la possibilità di accedere alla Pma con diagnosi genetica pre impianto alle coppie fertili, portatrici di malattie geneticamente trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità che consentono l’accesso all’aborto terapeutico.

Il richiamo al parlamento

Insomma, le linee guida del ministero della Salute recepiscono e attuano, talora un po’ stemperano, quanto la pratica medica e quella giudiziaria sono venute elaborando nei vari passaggi che hanno portato ad alcune decisioni giudiziali dirimenti. Peraltro, in ciascuno di questi passaggi veniva ribadita, e stentorea, la richiesta che il legislatore introducesse norme che consentano alle persone interessate di muoversi con chiarezza e agilità entro i limiti fissati dalla legge.

Più volte la Corte chiamava il parlamento a non lasciare il difficile compito di bilanciare tutti gli interessi coinvolti ai medici e alle strutture sanitarie competenti, oltreché ai tribunali ordinari. D’altro canto, ben al di là del campo pur complesso della genitorialità, questo monito si trova in molte delle sentenze della Corte costituzionale degli ultimi decenni, in tutti quei casi in cui vaghezze o vuoti giuridici necessitano di un intervento legislativo. Non si dimentichi infatti che, almeno in Italia, le Corti non possono fare leggi, compito che spetta esclusivamente al parlamento, dacché lì siedono i rappresentanti del popolo, eletti mediante suffragio. Come recita uno dei mantra più abusati del pensiero politico moderno, la sovranità appartiene al popolo, che ne dà manifestazione attraverso il voto.

La legittimità del potere legislativo poggia per intero su questo rapporto materiale e simbolico tra quell’entità particolarissima che si appalesa nel seggio elettorale e gli eletti in parlamento. Non si faticherà quindi a reperire le numerose doglianze di parlamentari e membri del governo per l’ingerenza di quei troppi magistrati che tentano di flettere i limiti della legge, o di storpiarne lo spirito, quando emettono sentenze che non piacciono alla politica.

Un paradigma nuovo

Ma c’è un altro modo di leggere questo criticatissimo fenomeno. Mentre articolano le loro storie particolari, i cittadini che si rivolgono ai tribunali costruiscono paradigmi esemplari, capaci cioè di riverberare interessi ed esigenze non riducibili al singolo caso in discussione. Al contempo, nel dipanarsi della loro interlocuzione, i tribunali ordinari e le corti più alte (come la Corte di cassazione e la Corte costituzionale), in costante dialogo con le corti sovranazionali, coinvolgono un’ampia batteria di attori (ricorrenti, avvocati, giudici, esperti di diverse discipline scientifiche), per mappare al meglio le carenze legislative e individuare i possibili rimedi. In quest’arena discorsiva si produce un sapere che nasce dall’esperienza concreta e aspira poi a formulare risposte più generali. Alcune delle riforme più significative in molte aree, dalla famiglia alle regole sul lavoro, sono state innescate da questa attività “giurisprudenziale”. Non si tratta certo di un processo immacolato e privo di opacità, ed è evidente che il suo meccanismo di legittimazione vada ripensato. Eppure, si dimostra una strada affidabile per offrire strumenti efficaci a chi ne ha bisogno quando ne ha bisogno, e questa a me pare una virtù, con buona pace di chi crede ancora che solo agli aruspici seduti in parlamento sia consentito scrutare le viscere della sovranità popolare.

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