Ho riletto in questi giorni, Cristianesimo e democrazia, del filosofo francese J. Maritain, del ’41. E mi ha colpito molto, perché mentre scorrevo quelle pagine così dense di ottimismo sulle magnifiche sorti e progressive della democrazia che sarebbero arrivate dopo la guerra, mi veniva in mente l’Ucraina, le democrazie illiberali europee, le fragilità della democrazia americana, e tanto altro ancora. Mi son chiesto che direbbe Maritain oggi, di quelle pagine piene di fiducia scritte 80 anni fa.

Ma in realtà ogni uomo dal ’42 alla mia generazione è figlio di Maritain. Dalla fine del secondo conflitto mondiale in avanti, complice anche il disegno europeo che si è andato costruendo, siamo stati abituati ad una narrazione che dava la democrazia generalmente condivisa come approdo definitivo, fine della storia, destinazione finale pressoché raggiunta. (E dico narrazione, perché poi, se uno guarda meglio, vede che la realtà forse era diversa. Con l’invasione in Ucraina ci siamo inventati che erano più di ottanta anni che non c’era la guerra in Europa, ma c’eravamo dimenticati della Jugoslavia, ad esempio).

Quella narrazione, ora, non è più credibile. E questa è una umiliazione narcisistica pari alle altre grandi tre che aveva individuato Freud: quella cosmologica, con Copernico (non sei più al centro dell’universo); quella biologica, con Darwin (non sei l’origine della specie); quella psicologica, con la psicanalisi (non sei padrone neanche di te stesso). E ora l’ultima: non sei all’approdo della storia. Ed è davvero una umiliazione narcisistica, in senso stretto. «Il progresso è troppo pieno di sé», scriveva Schmitt; e lo è ogni presente, anche il nostro, che si crede “arrivato”, e solo troppo tardi scopre che in realtà portava sempre dentro di sé una crepa.

La sensazione è destabilizzante, da far cadere in depressione. All’improvviso scopri che tutto quello che – troppo pieno del tuo presente – pensavi che non ci sarebbe stato «mai più», invece può tornare ad esserci. «Mai più» la guerra ai confini dell’Europa, ed eccola qua, tradizionale, quasi con le trincee. «Mai più» le istituzioni democratiche messe in discussione o assalite, ed eccolo qua, in una giornata di gennaio. «Mai più» i diritti delle minoranze, l’indipendenza dei giudici, la separazione dei poteri, il cuore della democrazia, tutto minacciato, ed eccoci qua, nel cuore dell’Europa.

È un po’ come per il Covid. «Mai più» una pandemia, «mai più» quarantene e confinamenti da peste del Seicento – e invece. Ricordiamo tutti benissimo quella sensazione di confusa incredulità di fine febbraio di due anni fa: «Impossibile. Non può essere. Siamo nel 2020». Il presente è troppo pieno di sé.

Ma se è così, allora crolla tutto – sta qui il rischio depressivo. Se è così, ogni «mai più» che ci siamo ripetuti in questi 80 anni, anche quello che non riusciamo neanche a nominare, a pensare, a recuperare, anche quello più satanico, non è detto che non ritorni. E il rimosso ritorna sempre in forme più spaventose e irrazionali di prima.

La fiducia cristiana di Maritain

Quella di Maritain era una fiducia essenzialmente cristiana, nel senso più laico che si potesse intendere allora. Per lui il cristianesimo compie un’azione nascosta, come lievito nella massa della storia – anche in quella che potrebbe sembrare più lontana: la rivoluzione francese, o la Russia del ’17. «Energia storica che opera nel mondo», «azione di stimolo nascosto», che opera non «nelle altezze della teologia, ma nelle profondità della coscienza profana», accompagnandola verso un progresso democratico. È una tesi, naturalmente. Ma che conserva il suo fascino.

Ancor più laicamente, può ritenersi che il cristianesimo aiuti il disvelamento di quella legge di natura, costitutiva dell’umano tanto da esserne cifra essenziale, che è la legge del «non tutto», come la chiama lo psicanalista Recalcati in alcune bellissime pagine de La Legge della parola (Einaudi, 2022). È questa legge del «non tutto», che ci rivela a noi stessi come mancanza, a fondare la necessità dell’altro, e dunque è l’accettazione di questa legge a fondare il rispetto dell’altro, che sta al nucleo della democrazia. Violare questa legge significa – scrive Recalcati – «rigettare la propria finitudine, negare la propria insufficienza e la propria mancanza». Solo se io invece l’accetto, io capisco che l’altro mi è necessario per realizzarmi, ed è questa intuizione che rende la democrazia una ipotesi convincente.

In definitiva, un progresso democratico richiede una maturazione interiore di questa legge del «non tutto», legge del limite, legge della finitudine e dunque della necessità dell’altro. Senza tuttavia ripetere lo stesso errore di Maritain, che, da credente, attribuiva al cristianesimo una capacità trasformativa della storia in sé, mentre forse questa capacità ce l’ha solo la soggettiva adesione alla sua prospettiva. Così è per la legge del «non tutto»: può essere accettata, e allora l’umano è reintegrato; ma può essere anche rifiutata, in un ripiegamento narcisistico che, come per ogni Narciso, conduce alla morte.

Certo è che, oltre che accettarla o rifiutarla, a questa legge del limite ci si può educare. Ecco perché, piuttosto che di un ministero del Merito, forse avremmo avuto bisogno di un ministero del Limite, che, nei percorsi di istruzione, non ti premi semplicemente perché sei arrivato primo, ma perché hai capito che, per arrivare primo, hai bisogno di altro e di altri che spesso sono più grazia che merito. Il merito, da solo, è arrogante, e «una meritocrazia perfetta bandisce qualsiasi concezione di dono o grazia e inibisce l’attitudine a considerare noi stessi parte di un destino comune». (Lo spiega bene il filosofo americano M.J. Sandel, in La tirannia del merito). Inibisce noi stessi a considerarci «non tutto». La meritocrazia perfetta, da sola, è quella di Caino. E non è di questo che abbiamo bisogno per poter ricominciare ad aver fiducia nel domani, pur come meno presunzione.

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