Quando Alemanno stravinse nelle elezioni a sindaco di Roma, un signore del Nuovo Salario che aveva fatto la campagna per lui mi disse «mo’ il problema è che ci abbiamo più poltrone che culi». La volgarità qualche volta serve a tagliare nodi complessi; dopo quindici anni da allora, il problema sembra riproporsi ora che la destra ha stravinto sul piano politico nazionale. L’ansia di occupare le posizioni culturali sensibili (la Rai, le Fiere, le Biennali…) si scontra, mi pare, con la capacità effettiva di trovare persone capaci di sostituire degnamente quel che è stato rimosso.

La sensazione che alcuni nomi proposti non saranno all’altezza è solo pregiudizio derivante dal fatto che a loro non è mai stata offerta l’occasione, o risponde a una reale debolezza? Solo il futuro ce lo dirà; intanto, vale la pena di riflettere sul peso politico di queste istituzioni.

Berlusconi, col suo formidabile istinto di imprenditore, non se ne preoccupava troppo: sapeva che la sottocultura porta più voti della cultura, lasciava volentieri i Saloni del Libro alla Sinistra e si inventava Colpo grosso.

La parte più visibile di quel che si intende nei dibattiti per “cultura” è il settore artistico (letterario, musicale, spettacolare, visivo). Gli artisti sono attratti dall’avventura esistenziale e conoscitiva, spesso sono persone che hanno (o hanno avuto) problemi di adattamento alla società, quindi tendenzialmente antagoniste; è plausibile che si sentano più vicini a chi parla di lotta e di progresso che ai propugnatori di un ritorno conservatore.

Anni Trenta

Da quando negli anni Trenta ha lasciato che il tema esoterico della Tradizione venisse fagocitato dai regimi totalitari, la Destra ha riservato sempre meno spazio all’avventura; è forte, come è sempre stata, quando può polemizzare con novità apparentemente progressiste che sono bacate nel profondo dalla corruzione e dalla cecità (dalla “gente nòva” di cui si lamentava Dante, alle “magnifiche sorti e progressive” dei circoli toscani che eccitavano il sarcasmo leopardiano, fino al colonialismo e all’arroganza finanziaria che facevano infuriare Céline e Pound). È questo il caso, adesso?

La mia impressione è che ora le “sorti progressive” siano equamente criticate e condivise da entrambi gli schieramenti, concordi nel ritenere che la direzione sia obbligata, che ogni idea di rivoluzione violenta sia esecrabile e che il conflitto si giochi sulle istruzioni da dare al guidatore. L’umanesimo è il baluardo difeso da tutti, mentre forse è proprio quello il concetto che lo sviluppo tecnologico sta mettendo in discussione. “Destra” e “Sinistra” rischiano di diventare dei valori in sé: “metterci più Destra” o “più Sinistra” diventa l’obiettivo che suscita entusiasmi e consenso, come se si trattasse di piatti gourmet, indipendentemente da quel che poi Destra e Sinistra potranno fare.

Un militante del Pd s’è sfogato con me l’altro giorno: «M’hanno spiegato che se dico “per me il colore della pelle non ha importanza“ dico una frase inconsciamente razzista, però se dico che ha importanza sono razzista ancora di più, quindi ha ragione Salvini che non si può più dire niente». Dietro c’è un lavoro faticoso di pedagogia delle masse che manca e di cui pochi (sia a destra che a sinistra) si stanno occupando; si dedicano invece alla reciproca conquista e difesa di minimi feudi, si buttano nomi in faccia come se fossero stracci bagnati - e la chiamano egemonia.

         

      

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