Vorrei potermi unire al coro di delusione e risentimento per la morte del ddl Zan, ma mi manca lo stupore necessario: questa era l’unica fine possibile per un disegno di legge scivolato progressivamente in un terreno intossicato da manipolazioni e banchetti cannibalici.

Comprendo bene lo sconforto, ma vorrei questo fosse anche il tempo della lungimiranza: lasciamogli la strumentalizzazione del senso delle parole, lasciamogli pure i loro sciocchi boati da stadio ovvero l’illusione della vittoria: ogni processo di cambiamento profondo ha battute d’arresto, scatti e pause. Ma il futuro non si ferma.

Lo spazio pubblico è cambiato e continua a cambiare: le persone, le comunità fino a ieri invisibili e silenziate adesso hanno canali e strumenti per manifestarsi, il dibattito si anima sempre più di centri diversi e ulteriori. Di fronte a tutto ciò la politica italiana, ora possiamo dirlo a gran voce, non tiene il passo. Siamo in balia di una classe dirigente vecchia (non solo anagraficamente) e pavida, imbevuta di stereotipi e sfavillante ignoranza, di retorica bigotta e cecità assoluta verso le questioni dell’identità e delle differenze: questo è lo stato delle cose, questo ha reso lampante il dibattito sulla legge contro l’omotransfobia.

Perciò viene da pensare che sia quasi un bene che questo fallimento ci sia stato, un fallimento annunciato e profondamente coerente con lo spirito di un paese in cui ancora certe forze sono prevalenti e capillari, trasversali agli schieramenti.

Soltanto una pausa

LaPresse

La morte del ddl Zan è la cartina al tornasole di un Paese in cui anche gli opinionisti di sinistra continuano ad alimentare l’allarmismo contro la “dittatura del politicamente corretto”, di fatto alleandosi con le forze reazionarie – quelle che ritengono si stia esagerando coi diritti, la tutela e l’ascolto dell’altro da sé –, di una società in cui, in questi mesi, abbiamo dovuto subire il paternalismo di quelli che ci volevano insegnare come combattere le nostre battaglie, invitandoci ad accettare fantomatici “mediazioni” e “compromessi” (ovvero, nei fatti, lasciando indietro gli ultimi tra gli ultimi: le persone trans e non binarie).

È la schermografia di un paese in cui le redazioni dei giornali progressisti hanno offerto ripetutamente supporto a chi vive con la mente in un passato fatto di partizioni e recinti che oggi sappiamo essere culturali e non naturali, nonché a un femminismo della differenza biologica che, ignorando bellamente i dati offerti dalla comunità scientifica internazionale, va a nozze con l’odio del fondamentalismo religioso.

Ci siamo sempre difesi, uniti, supportati, e continueremo a farlo: l’esultanza della destra in Senato in questo senso, più che oltraggiosa, risulta ridicola.

È troppo tardi per ricacciarci nei nascondigli di sempre, l’incantesimo nero è ormai spezzato: la fine del ddl Zan va intesa come una minima, piccolissima pausa in un movimento di liberazione, alleanza e promozione del nuovo, un movimento che giorno dopo giorno prende forma sotto gli occhi sgomenti di chi vorrebbe ricondurre le anomalie nel sottoterra culturale e giuridico della tradizione.

Ora non sprechiamo troppe energie nel rammarico: da qui, ancora più lucidi e consapevoli del lavoro da fare, si riparte.

La vecchia diga del potere ha provato a ribadire sé stessa, non deve stupire che ci sia riuscita. È solo questione di un po’ più di pazienza del previsto: la corrente del rispetto prossimamente non sarà più arginabile, i rami secchi si guadagneranno la riva.

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