Due sono stati i momenti topici che hanno marcato la politica italiana degli ultimi anni: il dibattito in Senato sulla mozione di sfiducia della Lega al governo Conte 1, che ebbe come conseguenza il ridimensionamento brutale del Carroccio e del suo leader; e la caduta del governo Conte 2 con l’infausta stagione del governo Draghi, incommensurabilmente inferiore, nelle sue realizzazioni, alle attese.

Dal primo momento, estate 2019, deriva un diverso assetto del sistema partitico. Le elezioni del 2018 avevano prodotto una tripartizione quasi perfetta dello spazio politico: una destra di vecchio conio (Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia), un “centro ubiquo” (M5s) e una sinistra tradizionale (Pd e spezzoni di quel mondo variamente dispersi). Il governo Conte 1 – Lega e M5s – rappresenta un’anomalia, per fortuna breve, cementata dal populismo dei dioscuri grillini Di Maio e Di Battista, sulle barricate contro Mattarella per difendere l’antieuro Paolo Savona all’Economia.

Il delirio di onnipotenza di Salvini, vero leader di quel governo, e l’inaspettata impennata d’orgoglio di Conte di fronte al suo affondo, hanno chiuso quell’esperienza. E reso possibile, attraverso la conversione pro-europea del M5s con il voto ad Ursula von der Leyen, la nascita (patrocinata da Matteo Renzi) di un governo giallo-rosso, per evitare elezioni anticipate e scongiurare una (ipotetica) vittoria leghista.

Con quel passaggio il sistema partitico ritorna ad una fisiologica dinamica bipolare: destra contro sinistra. Ma il secondo momento, la nascita del governo Draghi, impedisce di consolidare la competizione tra schieramenti alternativi. Inoltre, un esecutivo di grande coalizione alla fine, come sempre, favorisce l’unico che si oppone, Fratelli d’Italia. Il partito di Giorgia Meloni mantiene viva la protesta anti-establishment di destra, con alcuni intelligenti correttivi rispetto alla fallimentare irruenza salviniana, e cioè garantirsi le spalle sul piano internazionale appoggiando senza riserve la difesa dell’Ucraina e mettendo la sordina al suo tradizionale anti-europeismo.

L’esito delle urne del 2022 è il logico risultato del compattamento a destra sia di chi si opponeva che di chi sosteneva Draghi, mentre a sinistra prevalgono i distinguo pur tra chi aveva sostenuto fino ad allora il governo. E così arriva la catastrofe, come chiunque poteva immaginare: divisi si perde.

Se quindi il Pd, e tutti coloro che si oppongono a questo governo di estrema destra, vogliono tornare a vincere devono creare il fronte più largo possibile di alleanze. Inevitabilmente ci sono una serie di difficoltà.

La prima, i personalismi e gli egocentrismi di almeno tre protagonisti su quattro: in ordine alfabetico, Calenda, Conte e Renzi. Solo Elly Schlein è immune da questo tratto. Lo dimostra la pazienza olimpica con cui sopporta frecciatine, e persino insulti, dall’uno o dall’altro (in questo, non si è distinto soltanto Conte).

La seconda è la convinzione che questo sia il governo peggiore della repubblica. I tre leader sopracitati si contrappongono a Meloni a corrente alternata, a volte in maniera furente, altre volte ammiccando a possibili, parziali, intese. Ultimo ostacolo, e non da poco, l’agenda. Sono ancora troppo pochi i temi sui quali c’è convergenza, e anche laddove si è creata una sintonia di massima, è mancata la continuità di azione.

Eppure, la difesa dei diritti civili – ultimo episodio, l’attacco alla 194 della regione Piemonte – la giustizia sociale, la protezione per i più deboli, e, sul piano internazionale, una politica internazionale ispirata al multilateralismo, alla risoluzione pacifica dei conflitti e all’europeismo originario, dovrebbero trovare sufficiente consenso tra tutti. Però è necessaria quella che un tempo si chiamava volontà politica.

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