L’estate 2023 ha visto le prime, serie difficoltà dell’estrema destra (si chiama così) al governo in Italia. E non per l’aumento degli sbarchi.

Ci sono almeno quattro, gravi fattori di crisi. La severa sconfitta di Vox, in Spagna, il principale alleato di Meloni nell’Europa occidentale. L’emergenza climatica, che finalmente ha cominciato a imporsi anche nella nostra opinione pubblica, nonostante il governo abbia cercato a lungo di minimizzarla o negarla. I legami mai recisi con gli ambienti del neo-fascismo, palesatisi in ultimo con le dichiarazioni sulla strage di Bologna del responsabile comunicazione della regione Lazio, che ha addirittura accusato le massime cariche dello stato di nascondere la «verità» agli italiani (e che pure è rimasto al suo posto).

Quarta, ma non ultimo, la forte frenata dell’economia: - 0,3 per cento del Pil nel secondo trimestre 2023. I buoni tassi di crescita (addirittura superiori alla media europea, dopo decenni) erano stati finora il fiore all’occhiello della propaganda governativa: con buone dosi di mistificazioni, in realtà, perché erano conseguenza di un rimbalzo dopo una caduta ancora più forte, nel 2020 (anche questa superiore alla media europea), e comunque il frutto di scelte impostate dai governi precedenti.

Ma è una mistificazione comprensibile, in politica.

Il problema è che ora anche quell’edificio immaginario va in frantumi: l’Italia guidata da Meloni non è un paese che sta finalmente uscendo da un declino trentennale, ma, al contrario, rischia di entrarci ancora di più: con il governo Meloni a poco a poco stiamo diventando non soltanto meno liberi, ma anche più poveri.

A questi fattori di crisi si aggiunge, per la prima volta, la sostanziale unità di quasi tutte le opposizioni, su un tema molto sentito dai cittadini: il salario minimo e, con esso, il lavoro povero.

È a partire da questo scenario che bisogna leggere le ultime mosse di Meloni: mosse che, viste in questa luce, lungi dal mostrare scaltrezza rivelano approssimazione e confusione.

La tassa sugli extraprofitti delle banche, la prima mossa sociale della maggioranza, è stata annunciata male e preparata peggio, tanto che alla fine partorirà molto poco, pur avendo alienato al governo le simpatie dei mercati.

Di fronte alla caduta del Pil, l’abolizione del reddito di cittadinanza e i tagli al Pnrr (si pensi che il più recente, di 16 miliardi, era destinato per lo più ai comuni, su progetti già approvati, per rigenerare le periferie urbane), assieme a confuse misure di interventismo pubblico (nei settori non strategici) e protezionismo (chiudendoci alla ricerca internazionale, come sulla carne coltivata) e alla ostinata difesa delle rendite (i balneari, i taxisti), fanno presagire cadute ancora peggiori e un autunno di forti tensioni sociali.

Confusione c’è anche sul salario minimo: la ventilata compartecipazione agli utili, per esempio, si applica a settori diversi e a rigore dovrebbe essere accompagnata dalla cogestione sul modello tedesco, è quindi in realtà complementare e non alternativa al salario minimo (configurando un programma social-democratico, di sinistra); mentre la dilazione in atto non farà che ingigantire il problema.

Di fronte a questa situazione, l’opposizione ha una sola cosa da fare. Rimanere unita, continuare a insistere su grandi temi popolari (oltre ai salari la sanità pubblica, il Pnrr, gli stessi diritti civili) che possano poi fare da base per una coalizione vincente: la strada per mandare a casa l’estrema destra forse comincia a prender forma.

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