In un articolo molto stimolante pubblicato su Domani dello scorso 8 aprile, Emanuele Felice pone una questione tutt’altro che secondaria: ridare senso alle parole “liberale” e “riformista”. Pur nella necessaria sintesi e semplificazione imposte dallo stile giornalistico, Felice ha colto un tratto problematico degli ultimi trent’anni: la confusa e improvvisata identificazione dei partiti politici nostrani con alcune culture politiche. Un’identificazione operata alla disperata ricerca di una nuova identità, avendo consumato il patrimonio di credibilità, nutrito per un cinquantennio dalla presunzione ideologica di essere dalla parte giusta della storia. Si dà il caso però che i partiti politici non siano chiese, fonti di verità, e che la storia si sia incaricata di mortificare questa presunzione, obbligandoli a trovare nuove parole d’ordine che li rappresentassero come figli spirituali di nobili famiglie politiche e non repellenti zombie.

Vino nuovo in otri vecchi

Le parole d’ordine sono “liberale” e “riformista”: vino nuovo – e non dei migliori – in otri vecchi e impresentabili. L’operazione mimetica non poteva aver successo e oggi le bandiere del liberalismo e del riformismo appaiono così screditate che nessuno degli attuali attori politici può realmente permettersi di accreditarsi come liberale e riformista, senza suscitare quantomeno ilarità. Chiunque lo facesse non potrebbe sottrarsi all’ironia di chi opportunamente gli farebbe notare che non si può essere liberali e acclamare come proprio leader di partito un oligopolista. D’altra parte, è difficile continuare a essere credibili nel definirsi riformisti, senza aver fatto i conti con gli abbagli ideologici della cultura progressista italiana, attardata alla ricerca di una ricetta tardo-socialdemocratica, se consideriamo l’evoluzione della socialdemocrazia dopo Bad Godesberg e l’emergere del primo laburismo di James Ramsay MacDonald e dalla svolta new labour di Tony Blair.

Felice sottolinea il movente «opportunistico» di quella fase politica in cui le categorie di “liberale” e di “riformista” hanno fatto la fine della notte nella quale le vacche sono tutte nere e identifica tale movente con il “populismo”. Sinceramente questa ricostruzione non mi convince e temo esasperi ulteriormente la confusione delle categorie, sommando alla precaria rappresentazione del “liberale” e del “riformista”, anche quella del “populista”. Si potrebbe perfino affermare che l’opportunismo sia una sorta di “residuo” paretiano, una costante dell’agire politico. Il populismo è un fenomeno la cui descrizione rinvia a una serie di elementi che hanno a che fare con un’idea di popolo: eletto; un’idea di leader: carismatico; un’idea di relazione politica: legame mistico tra il popolo e il suo capo; di avversario politico: marciume da espellere, il tutto in una cornice sociale di tipo organicistico. Non vedo come tutto ciò abbia minimamente a che fare con la pretesa liberale e riformista.

Economia sociale di mercato

Per tale ragione, accogliendo la denuncia di Felice, mi permetto di proporre un’altra chiave di lettura che innesta l’assenza di autentici attori liberali e riformisti nell’incoerenza intrinseca del nostro sistema, e delle sue culture politiche, rispetto al quadro europeo; mi sono sempre chiesto cosa abbiano in comune con il liberalismo, il popolarismo e la socialdemocrazia europei i partiti di centrodestra che hanno fatto appello alla rivoluzione liberale e il Partito democratico. In Europa, “popolari”, “socialisti”, “conservatori”, “liberali”, “ambientalisti”, e via dicendo, sono riconoscibili a partire da una determinata cultura politica sul rapporto tra autorità politica e società, tra società e persona, tra mercato e autorità politica. Rapporti essenziali per delimitare i confini e selezionare i contenuti delle culture politiche e a cui i partiti politici del nostro paese non sembrano particolarmente interessati.

Oltretutto, ed anche questo è un nodo che Felice non scioglie, il liberalismo e il riformismo europei inquadrano quei rapporti nella prospettiva teorica della cosiddetta economia sociale di mercato, che piaccia o meno, divenuta il modello adottato dall’Unione europea in seguito al Trattato di Lisbona (Art. 3). A questo punto, domando all’amico e omonimo Felice, se abbia ancora senso ricercare una purezza liberale e riformista nelle intenzioni o ancor meno nelle prassi degli attori politici. O se non occorra piuttosto cercare un accordo pragmatico sulle grandi sfide che affiorano nello spazio politico europeo nel quadro dell’economia sociale di mercato. Questioni come la tutela della concorrenza, la vigilanza della finanza pubblica e la garanzia di buona amministrazione possono in tal modo rivelarsi dirimenti affinché quella della sovranità popolare non si riveli una vuota delega di potere a terzi ma il concreto riverbero di doveri e diritti del nostro dirci cittadini.

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