In carcere raccontano di un detenuto che appena uscito si era ritrovato solo nel piazzale. E per prima cosa aveva abbracciato un albero. Non toccava niente di vivo – piante, alberi, animali – da oltre vent’anni.
È una storia vera. Una delle tante che ho ascoltato visitando gli istituti di pena liguri. È una delle prerogative di noi consiglieri regionali ed è un’esperienza che cambia la vita.
Da sette giorni sto facendo lo sciopero della fame per ottenere che la Liguria nomini finalmente il Garante dei diritti delle persone private della libertà. I detenuti, appunto. Ma anche il Garante dei minori, delle vittime di reato e il difensore civico. Insomma, tutte quelle figure che tutelano le persone deboli.
È tutto paralizzato da due anni per il disinteresse generale e per la lotta a dividersi le poltrone: “Tre a noi e uno a voi”, ci siamo sentiti dire a una delle prima riunioni per risolvere la questione. No, non decidere in base a competenza ed esperienza, ma solo per appartenenze.
Ho chiesto per mesi e mesi, all’inizio di Consiglio regionale, che si affrontasse finalmente la questione. Senza ottenere una risposta seria. E alla fine non mi è rimasta altra arma che cominciare lo sciopero della fame. Per chiedere il semplice rispetto di una legge.

La situazione nelle carceri

In Liguria i detenuti sono oltre mille, ma in Italia sono circa 55mmila. Sono anni che associazioni, organizzazioni e figure come Luigi Manconi ci ricordano inutilmente la sorte di queste persone dimenticate. Dall’inizio dell’anno nelle nostre carceri ci sono già stati 76 suicidi, più di quanti se ne siano contati in tutto il 2021 (58). Ma le statistiche non dicono degli infiniti atti di autolesionismo, compiuti da chi non ha più un grammo di speranza.

Oppure da chi non ha più altro mezzo per provare a farsi ascoltare se non il proprio corpo. Se ne parla da anni, da decenni, ma niente è cambiato. In fondo consideriamo i detenuti delle donne e degli uomini perduti.
Mancano le risorse per costruire istituti nuovi, che garantiscano dignità e un minimo di speranza di riabilitazione (è questo, anche, lo scopo della condanna).

Non è garantita un’adeguata assistenza sanitaria, è ignorato il problema dei detenuti tossicodipendenti (quasi la metà) e di quelli con problemi psichiatrici che, dopo la chiusura sacrosanta degli Ospedali psichiatrici giudiziari, sono spesso stati sbattuti negli istituti comuni. Ma c’è di più: le condizioni delle celle, la qualità del cibo. Soprattutto ciò che garantisce un presente dignitoso e lascia aperto uno spiraglio di futuro.

Quindi l’accesso dei carcerati a forme di lavoro, di istruzione e formazione professionale, di attività fisica e culturale. Più di tutto, però, i contatti umani: il covid ha compresso in modo insostenibile il diritto ai colloqui, alle telefonate con i parenti.

Per non parlare della privazione dell’affettività; insomma, l’amore e, sì, anche la sessualità, che costituisce una pena accessoria e terribile. Non soltanto per i detenuti, ma anche per compagni/e e coniugi. «Sono stata condannata anch’io a dieci anni», mi ha detto un giorno una donna che ogni mese va a trovare il marito rinchiuso: pochi minuti di colloqui, magari separati da una lastra di plexiglass, con le mascherine, senza neanche toccarsi. Nessun passo avanti.

Le mancate riforme

Nessuna riforma seria che si occupi del reinserimento di chi alla fine esce: i legami con la famiglia (quando ne rimane ancora una), la casa, il posto di lavoro.
Così come restano inascoltate le richieste di aiuto della Polizia penitenziaria: personale assolutamente inadeguato nei numeri, turni massacranti, un trattamento economico spesso umiliante. Soprattutto l’estrema difficoltà di compiere un lavoro di cui si stenta a vedere un senso.
Sono tutti in qualche modo prigionieri: i carcerati, le loro famiglie, e gli operatori che oltre le mura di cinta trascorrono anch’essi gran parte della propria esistenza.
Servono strutture e personale, servono investimenti consistenti. Occorre soprattutto volontà del mondo politico, ma anche di tutta l’opinione pubblica.
Certo, un Garante può sembrare poca cosa di fronte a tutto questo, ma è invece indispensabile. Consente di denunciare violenze e maltrattamenti che altrimenti faticano a emergere; può sollecitare piccoli provvedimenti che, per chi vive di niente, cambiano la vita (una telefonata, una lezione scolastica, l’acquisto di un paio di attrezzi per la palestra). Ma può anche contribuire a rendere la giustizia più giusta. Come?

Sollecitando incontri con i magistrati di Sorveglianza (anch’essi spesso sotto organico) oppure assicurandosi che i detenuti ricevano un’adeguata assistenza legale (dietro le sbarre non ci sono i Berlusconi, ma indagati o condannati spesso senza mezzi economici per difendersi adeguatamente).
Così si recuperano le persone alla loro vita, ma anche alla società dove potranno tornare senza delinquere ancora.
Sono sette giorni che digiuno. In fondo è poco più che un gesto simbolico. Non so se sia stato utile per i detenuti, ma certo è servito a me: privarci di qualcosa ci avvicina alla condizione di molte migliaia di persone. Ci fa sentire meno soli.

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