L'8 marzo 2020, a Modena, viene scritta la pagina più buia, per morti e saccheggi, nella recente storia penitenziaria dell'Italia Repubblicana. Domani da giorni racconta gli eventi dello scandalo, e le presunte responsabilità dei detenuti rivoltosi, degli agenti che avrebbero pestato a sangue carcerati indifesi, e dei silenzi della politica.

Per capire cosa è successo nel penitenziario e perché la macchina dello stato non ha funzionato nemmeno stavolta (le violenze al carcere di Santa Maria Capua Vetere non sono dunque un’eccezione) bisogna però fare anche un salto all’indietro.

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La direttrice cacciata

Fino al 19 gennaio 2020, neanche due mesi prima della devastazione del carcere, a Modena c'era infatti una direttrice, Federica Dallari, che è stata trasferita dall’istituzione. Il comportamento di Dallari era infatti parso troppo sbilanciato a favore della popolazione detenuta.

Il Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, sposta Dallari da Modena perché l’accusa di assumere con le detenute e i detenuti un approccio troppo diretto, spesso assecondandone le richieste. È questa, almeno, una delle ragioni contenute nel provvedimento assunto dall’amministrazione e risalente all’ottobre 2019.

La politica della dirigente nel corso dei mesi avevano aperto un continuo e deleterio scontro con la polizia penitenziaria, tanto che Dallari aveva ricevuto ripetute critiche da parte dei sindacati di categoria. La scelta del dipartimento precede di poche settimane l’arrivo della pandemia da Covid 19 e le decisioni del governo di sospendere i colloqui in carcere con i familiari dei detenuti. Due circostanze che provocheranno di lì a qualche settimana fibrillazione in tutte le celle d’Italia, dando il là a proteste e ribellioni.

La nuova direttrice nominata dal Dap, Maria Martone, non lavora in pianta stabile nel carcere, ma deve dividersi tra due istituti: a Modena, si reca solo due volta a settimana. L'istituto così trova nel comandante della polizia, Mauro Pellegrino, il suo riferimento principale.

Figura capace e apprezzata nel mondo penitenziario, Pellegrino ha dovuto affrontare una situazione senza precedenti con un carcere in rivolta e i corridoi in fiamme. Le sue scelte, il giorno della rivolta, raccolgono elogi, ma anche alcune critiche. «C’è il vincolo del segreto di ufficio al quale sono tenuto», chiarisce il poliziotto penitenziario quando gli chiediamo conto di alcune sue decisioni.

Durante la giornata più difficile della sua vita professionale, Pellegrino deve sopperire all’assenza della direzione, e gestire una rivolta in condizioni difficilissime, visto il sovraffollamento in cui si trova la prigione.

Dietro le sbarre

In carcere, quell'8 marzo 2020, c'erano 547 detenuti a fronte di una capienza massima prevista di 361. Contemporaneamente c’è assoluta carenza di agenti, in numero insufficiente ad affrontare la normalità.

La ricostruzione degli eventi della giornata si fonda su testimonianze inedite, i ricorsi degli avvocati dei familiari dei detenuti morti e documenti agli atti dei fascicoli aperti dalla procura di Modena. La magistratura ha aperto infatti tre filoni d'indagine. Il primo riguarda i morti, deceduti per overdose di metadone, ed è stato archiviato nonostante l'opposizione delle difese. Il secondo interessa i saccheggi: l’inchiesta è ancora in corso a oltre due anni dai fatti.

Il terzo sta approfondendo le presunte violenze degli agenti sui detenuti, e vede iscritti cinque agenti della polizia penitenziaria. Tra i coinvolti c’è il commissario Giobbe Liccardi, indagato per tortura e lesione, uomo di fiducia della catena di comando. In quelle ore Liccardi è uno dei riferimenti operativi del comandante Pellegrino, che quando il carcere viene preso d'assalto dai detenuti ordina ai suoi uomini di abbandonare dell'istituto.

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Il negoziato

«Io stavo nel vecchio padiglione (la rivolta inizia nel nuovo edificio, ndr) e a un certo punto gli agenti andarono via: bastava il supporto di altre unità e la rivolta sarebbe stata subito sedata. Io scappai fuori, ma dal muro di cinta Pellegrino mi disse di rientrare per mettere in salvo le detenute», dice l’ex recluso Shera Bledar.

Bledar è oggi indagato perché avrebbe favorito l’assalto al Mof, il locale della manutenzione ordinaria del fabbricato, dove sono depositati arnesi, martelli, picconi, scalpelli. L’ex detenuto, che si dichiara estraneo alle accuse, è stato espulso in Albania, dove adesso lavora come muratore, dopo aver scontato in carcere una condanna per droga e armi.

La scelta di lasciare il carcere sarebbe stata impartita dal comandante «per garantire l’incolumità del personale», si legge nella relazione che firma il 20 luglio 2020. Gli agenti – si legge – abbandonando i servizi di vigilanza e poi, «per evitare di restare bloccati dall’accerchiamento» arretrano oltre la porta carraia. In pratica perdono il controllo del carcere.

Dentro i detenuti incendiano e devastano senza che nessuno possa fermarli, mentre fuori gli agenti bloccano i ripetuti tentativi di evasione, supportati dalle altre forze dell'ordine. Ma nessuno irrompe nell’istituto neanche quando i reclusi assaltano la farmacia con il rischio (puntualmente avvenuto) dell'assunzione indiscriminata di farmaci con conseguente overdose.

Una parte del personale civile, però, resta bloccato all'interno dell'ufficio del comandante: si tratta di medici, operatori, ma anche agenti della polizia penitenziaria. A salvarli dalla furia dei rivoltosi – questo il paradosso – non sono i poliziotti penitenziari con il supporto delle altre forze dell’ordine, ma alcuni carcerati.

Pellegrino parla in effetti nella sua relazione, di «lunga e gravosa opera di trattativa con alcuni detenuti che apparivano meno di altri intenzionati a proseguire la protesta violenta, perché mossi dal desiderio di arrendersi». Sono questi ultimi ad entrare nella stanza in cui si erano rifugiati agenti rimasti e civili e a portare all’esterno infermieri, medici, tredici agenti della polizia penitenziaria, tre agenti di vigilanza della sezione femminile e trentasette detenute presenti nel vecchio padiglione.

«Lo stato si è affidato a noi. Io non sono alto neanche un metro e settanta, con altri siamo entrati e abbiamo evitato che alle donne torcessero anche solo un capello, portando tutti fuori in sicurezza. Ma questo dovevano farlo gli agenti, mica noi. E ora sono pure indagato!», dice Bledar.

Ma perché alcuni detenuti avrebbero accettato di fare da “pacieri”? Per essere portati loro stessi all’esterno «in condizioni di sicurezza», scrive Pellegrino. In quelle ore i detenuti accompagnano all’esterno anche i compagni di cella in condizioni di salute compromesse, alcuni moriranno di lì a poco mentre altri erano già morti.

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Senza risposte

Ora, perché si decise l'abbandono dell'istituto quando all'interno c'era ancora personale? Perché non si fa irruzione per evitare o contenere l'assalto alla farmacia? Perché non si utilizzano a supporto le altre forze dell'ordine? E perché vengono utilizzati detenuti per scortare all'uscita il personale intrappolato nell'inferno? «Ci sono indagini in corso e non intendo parlare», ripete Pellegrino.

Il comandante spiega, nelle relazioni depositate, di aver provato a coniugare la salvaguardia dell’incolumità del personale, quella dei detenuti e il soccorso di chi necessitava di cure. La relazione ministeriale, diffusa il giorno dopo la pubblicazione della prima puntata della nostra inchiesta, promuove senza se e senza ma l’operato della penitenziaria, parlando di una condotta «calibrata agli eventi» e addebita all’imprevedibilità della rivolta la mancata applicazione del «piano di difesa».

C'è un ultimo passaggio che riguarda quella giornata: il trasferimento dei detenuti negli altri istituti di pena, alcuni non sarebbero stati in condizioni di salute adatte per sostenere quei viaggi. Proprio poco prima dei trasferimenti sarebbero avvenute le violenze, denunciate da sette detenuti che hanno presentato un esposto.

«Anche io sono stato trasferito e li ho visti i detenuti massacrati di botte anche sui furgoni, a me non mi hanno toccato», dice Bledar.

Domani ha raccolto la testimonianza di un agente penitenziario che, pur non avendo partecipato al pestaggio, ha visto i volti sanguinanti dei detenuti all'uscita dallo stanzone. Pellegrino cosa pensa dell'indagine che riguarda i suoi uomini? È mai entrato in quel casermone e cosa ha visto? «In quello stanzone sono entrate decine e decine di persone, io violenze non le ho viste in nessun modo. E ho fiducia in tutti i miei uomini».

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