I sostenitori del progetto di riforma della Costituzione riconfermano l’atavico odio per il governo parlamentare. L’antiparlamentarismo è iniziato insieme al processo di democratizzazione, dalle fucilate che nel 1898 il generale Bava Beccaris ordinò contro una popolazione inerme che chiedeva pane e lavoro alla marcia su Roma, che con la violenza extra-legale portò l’Italia fuori del governo parlamentare.

Per dare un senso all’attuale proposta di riforma che dovrebbe donarci governo forte e maggioranza durevole (di «medio-lungo periodo» ha detto Giorgia Meloni), vale la pena ricordare che l’uscita fascista dal governo parlamentare fu sancita non da un colpo di stato e neppure dall’abolizione dello statuto Albertino, bensì da una riforma elettorale che generò una super-maggioranza parlamentare che approvò il decreto di riordino dei poteri dell’esecutivo.

La legge Acerbo

La riforma elettorale, conosciuta dal nome del deputato Giacomo Acerbo che ne redasse il testo nel 1923, modificava il sistema proporzionale in vigore dal 1919 con un premio di maggioranza in quota fissa (2/3 dei seggi) al partito più votato qualora questo avesse superato il quorum del 25 per cento.

Il governo presieduto da Benito Mussolini mise la fiducia al provvedimento che prevedibilmente divenne legge. Votarono a favore oltre al Partito nazionale fascista e alle forze di destra, larga parte del Partito popolare italiano e dei gruppi parlamentari di tendenze liberali.

Si opposero i socialisti, i comunisti, la sinistra liberale e quei popolari che facevano riferimento a don Luigi Sturzo (tra loro Alcide De Gasperi) – di fatto, i gruppi politici che avrebbero successivamente animato la Resistenza contro il fascismo e costituito la maggioranza eletta in Assemblea costituente nel 1946.

La riforma Acerbo entrò in vigore con le elezioni del 1924 che segnarono la fine del governo parlamentare e l’istituzione di una super-maggioranza che avrebbe consegnato il paese a Mussolini per vent’anni (un tempo «medio-lungo»).

L’allora senatore Gaetano Mosca, che nel 1923 aveva votato a favore della legge Acerbo per vedere affossato il sistema proporzionale e lo spregevole parlamentarismo democratico, dovette presto ricredersi.

Memorabile, benché tardiva, la sua rivalutazione del governo parlamentare nel discorso che tenne in Senato il 19 dicembre 1925. Motivando la propria opposizione al disegno di legge sul rafforzamento dei poteri del capo del governo Mosca disse: «Noi assistiamo, diciamolo pure sinceramente, alle esequie di una forma di governo» quella parlamentare – «io non avrei mai creduto di dover essere il solo a fare l’elogio funebre del regime parlamentare (...) io che ho adoperato sempre una critica aspra verso il governo parlamentare, ora debbo rimpiagerne la caduta».

Quel sistema tanto biasimato era “migliore” di quello dell’esecutivo dominante, i cui provvedimenti istitutivi non ottennero il voto di Mosca: «Se li approvassi voterei contro la mia coscienza, contro le mie intime convinzioni, e perciò sono costretto a dare il voto contrario alle proposte che ci sono ora davanti». Troppo tardi.

Nell’errore di Mosca potrebbero incorrere oggi quei benemeriti uomini di cultura e d’opinione che vorrebbero cucinare la riforma Meloni in salsa meno piccante, per farla passare in parlamento e scongiurare il temuto referendum. Come al tempo di Mosca, ci sono oggi uomini moderati illusi di potere domare l’hybris dominandi di chi aspira al governo forte. Utopisti in un tempo di immoderazione – amici anacronisti della saggezza politica.

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