Gli italiani osservano la controversa, eppure straordinaria, guerra finanziaria “di popolo” in corso negli Stati Uniti sulle azioni GameStop, come gli albanesi guardavano RaiUno trent’anni fa: ci fa sognare ma ne siamo esclusi. Scrutiamo sui nostri schermi le vicende luccicanti e feroci della Borsa americana ma se ci affacciamo alla finestra vediamo che da noi, come nell’Albania degli anni Ottanta, non sono ancora arrivati i semafori.

Il presente italiano – identico al passato – lo descrive sul sito Firstonline.info un signore di 73 anni, Fulvio Coltorti, che per 40 anni ha guidato l’Area studi di Mediobanca e oggi insegna alla Cattolica di Milano. Il suo profilo non è quello di un rivoluzionario. Ha governato per decenni le ricerche economiche di una banca d’affari che fino alla morte del suo fondatore Enrico Cuccia è stata il principale centro di potere finanziario del paese.

Comandava di fatto sulla Fiat, sulle Generali e sulle principali banche, per tacere del Corriere della Sera e di altri snodi minori. Coltorti prende spunto da un articolo di Beppe Scienza, matematico esperto di risparmio e previdenza, pubblicato sul Fatto Quotidiano. Scienza denuncia che Mediobanca ha deciso di interrompere la pubblicazione della «indagine sui fondi comuni d’investimento» inaugurata da Coltorti nel 1992. L’accusa è precisa.

Ogni anno Coltorti raccoglieva i dati e ne veniva fuori sempre la stessa diagnosi: chi affidava i soldi ai fondi d’investimento gestiti dalle banche otteneva rendimenti inferiori a quelli che gli avrebbero garantito i vecchi buoni del Tesoro. Il che, detto chiaro, significa che da decenni l’industria del cosiddetto risparmio gestito serve alle banche per mettere le mani in tasca ai suoi clienti e spolparli un po’ per rattoppare i propri bilanci, come anno per anno gli studi di Mediobanca hanno documentato.

Fino a che non sono stati interrotti. Coltorti legge, ringrazia Scienza e, conferma: «Singolare epilogo quello di oggi. La dirigenza giovane di allora è ora al comando della nave, mentre tra i soci vi sono stati avvicendamenti. Tendono a prevalere i portatori di interessi “propri”, più che dell’istituzione. (...) Il mondo della finanza cambia spesso: non sempre in meglio».

Basti un solo dato. Nel 2019 – ultimo anno prima del Covid – l’indice Ftse Mib della Borsa di Milano ha guadagnato il 25 per cento. Chi avesse investito 100 euro a gennaio in uno di quei titoli chiamati Etf, che riproducono la composizione dell’indice acquistando azioni nelle stesse proporzioni che compongono l’indice si sarebbe trovato a fine anno 125 euro. Invece i fondi azionari italiani – gestiti da fior di professionisti strapagati per comprare e vendere titoli e addebitare i costi dell’operazione ai clienti – hanno avuto un rendimento negativo.

È uno scenario quotidiano noto a tutti fuorché ai media: “Signora, ma perché tiene tutti quei soldi sul conto corrente che non rende niente? Dia retta a me, li investa nel nostro fondo comune Golden Bet Dream Unknowable Risk che rende bene”. I risparmiatori si fidano e in questo momento hanno investiti sui fondi comuni circa 1.200 miliardi di euro, pari a tre anni di stipendio di tutti i lavoratori dipendenti italiani.

L’industria del risparmio gestito da una ventina d’anni puntella i bilanci delle banche a spese dei clienti, e questo lo scriveva Mediobanca nei suoi studi: «L’industria dei fondi continua a rappresentare – in un orizzonte temporale di lungo periodo – un elemento distruttivo di ricchezza per l’economia del paese».

Dopo vent’anni di guerra senza esclusione di colpi ben ricostruita da Coltorti, e dopo che anche Mediobanca è entrata nel risparmio gestito (oggi costituisce un quarto dei suoi ricavi), Assogestioni (la lobby dei fondi) ha vinto la sua battaglia. Visto che la febbre non calava hanno rotto il termometro.

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