Ci si domanda se, come e con quali conseguenze l’inflazione tornerà nei pressi del 2 per cento, obiettivo delle banche centrali. L’inflazione ha colto di sorpresa le autorità monetarie, che hanno reagito con il più rapido aumento dei tassi dagli anni Ottanta.

Ma secondo loro, sarà un atterraggio “soft”: una discesa al 2 per cento dell’inflazione, con un inevitabile rallentamento dell’economia quest’anno ma senza una vera e propria recessione, convenzionalmente definita come almeno due trimestri di crescita negativa del Pil.

Addio atterraggio morbido 

A inizio anno sembrava infatti che ci fossero le condizioni per un atterraggio morbido: l’inflazione in graduale rallentamento ovunque, pur su livelli molto al di sopra del 2 per cento, ma la dinamica era quella giusta.

Gli ultimi indicatori sullo stato di salute delle imprese, stabili intorno a 48 sia in Europa che negli Usa (un livello di 50 indica che il numero degli ottimisti eguaglia i pessimisti) indicano debolezza ovunque, ma non il crollo che ci si aspetterebbe in recessione.

Il rialzo dei tassi ha poi messo in crisi il mercato immobiliare di tutti i paesi, ma gli effetti sugli affitti (un’importante componente dell’indice dei prezzi) e l’effetto ricchezza sui comportamenti delle famiglie si fanno sentire solo con molto ritardo.

La crescita dei salari, specie nel settore dei servizi e del tempo libero, rimane elevata, anche per l’onda lunga del cambiamento dei comportamenti della gente che dopo le chiusure dovute al Covid vuole più tempo libero, più viaggi, più tempo fuori casa e meno smart working.

Ma per quanto elevati, il potere di acquisto dei salari e dei redditi finanziari, al netto dell’inflazione, è ampiamente negativo, con un effetto che col tempo è deflattivo.

Per sostenere le proprie spese, infatti, i consumatori non possono fare affidamento a lungo sull’eccesso di risparmio e di depositi bancari (specie in Italia) accumulati durante la pandemia.

Infine, non solo i tassi sono drasticamente aumentati ma anche le generali condizioni finanziarie sono diventate più restrittive: lo stock di moneta M2, che include tutti i depositi bancari, a gennaio si è contratto negli Stati Uniti di quasi il 2 per cento rispetto al +11 di un anno fa; meno marcata la decelerazione di M2 nell’Eurozona, che tuttavia ha dimezzato la crescita in un anno dal 7 al 3 per cento.

Ma ancora più significativo per noi, dove l’impennata dell’inflazione era prevalentemente importata, è stato il crollo dei prezzi dell’energia, con quello del gas sul mercato future olandese TTF e del greggio (Brent) tornati ai livelli dell’estate 2021, avendo così assorbito lo shock causato dalla guerra in Ucraina. Anche il prezzo di rame e alluminio, due metalli chiave per la transizione elettrica dei veicoli in un anno sono caduti dell’11 e del 34 per cento rispettivamente.

Atterraggio problematico

Fino a poco tempo fa le aspettative erano dunque che Fed e Bce avrebbero aumentato nelle prossime riunioni di marzo i loro tassi di riferimento un’ultima volta, rispettivamente dello 0,25 (al 5 per cento) e dello 0,50 (al 3 per cento), per poi aspettare di verificare che i dati nei mesi seguenti corroborassero il raffreddamento dei prezzi, e una ripresa economica nel 2024.

Ma i più recenti dati sull’inflazione, la resilienza dell’economia, nonché la disoccupazione ai minimi storici, hanno messo in crisi lo scenario di un atterraggio morbido e riproposto quello “hard”.

È successo che negli Usa l’indice dei prezzi al consumo è sceso molto meno del previsto (al 6,4); mentre il deflattore dei consumi, preferito dalla Fed, è addirittura aumentato da 4,6 a 4,7 per cento.

Molto più problematico, e sconcertante, il dato armonizzato dell’Eurozona di febbraio per tre ragioni: è sceso molto meno del previsto, all’8,5 per cento, il quadruplo dell’obiettivo Bce; il dato depurato proprio della componente energetica, prima causa di inflazione, è addirittura aumentato da 5,3 a 5,6; è c’è un’enorme discrepanza nella dinamica dei prezzi tra i vari paesi euro (si va dal 6,1 della Spagna, al 7,2 della Francia, 8,9 dell’Olanda, 9,3 della Germania e purtroppo 9,9 dell’Italia), mentre tassi e politica monetaria sono uguali per tutti.

Si è pertanto diffusa l’aspettativa che le banche centrali saranno costrette ad aumentare i tassi più del previsto e molto più a lungo: negli Usa il future del tasso Fed è passato dal 4,5 per cento atteso per fine 2023 al 5,5; e c’è anche chi ipotizza si arrivi al 6.

Ancora più marcate le aspettative di rialzo della Bce con un picco atteso che dal 3 passa al 4 per cento. Da qui il cambiamento di scenario in cui le banche centrali sono costrette a alzare ancora i tassi e troppo a lungo perché l’atterraggio sia morbido.

Niente atterraggio 

C’è poi lo scenario del “no landing”: quello in cui le banche centrali, una volta che l’inflazione si avvicina al 3/4 per cento, dichiarano vinta la guerra ai prezzi e lasciano che l’inflazione si assesti a un livello più alto del 2. Impossibile fare previsioni ragionate su quale scenario prevarrà, anche perché dipenderà dalle banche centrali, che a loro volta reagiscono ai dati man mano che sono resi noti.

Rimane l’enigma del perché l’inflazione rimanga ostinatamente elevata da noi, come negli Stati Uniti, nonostante la forte restrizione monetaria e la fine del caro energia; ma al tempo stesso le economie siano così resilienti.

Già su queste colonne avevo suggerito di analizzare l’enigma guardando non ai dati macro, ma all’economia vista con gli occhi delle imprese. E da un campione di società quotate italiane (non finanziarie o di pubblica utilità), emergeva la loro capacità di aumentare i margini lordi (ovvero prima degli ammortamenti che sono poste contabili) chiara indicazione del loro potere di trasferire a valle i maggiori costi; a sua volta indice della forza della domanda nonostante l’aumento dei listini.

Ho pertanto rifatto lo stesso esercizio per le 3.000 società americane dell’indice Russell e le 600 europee dell’indice Stoxx, per un periodo più lungo e i risultati, mostrati nel grafico, sono a dir poco sorprendenti.

Il margine lordo (rapporto tra Ebitda e ricavi) è in continua crescita dal 2011 sia in Europa che negli Usa, con la sola eccezione del crollo al tempo del Covid; ma dopo una discesa contenuta nel 2022, le stime di consenso prevedono che i margini riprendano a crescere sia quest’anno sia il prossimo su livelli record.

L’unica spiegazione possibile per l’andamento dei margini, come pure per l’enigma della persistenza dell’inflazione e resilienza dell’economia, è che siano tutte conseguenze dell’inusitata espansione fiscale per fronteggiare la pandemia, di cui si percepiscono ancora le code (vedi superbonus), a cui si è aggiunto il vasto programma di investimenti infrastrutturali e green, sia negli Usa (il mega piano di incentivi dell’amministrazione Biden e degli Stati americani), sia in Europa (il Next Generation Eu); il boom di spese militari a seguito della guerra in Ucraina; e l’enorme spesa pubblica in Europa per attenuare il caro energia e diversificare le fonti di approvvigionamento.

Che la spiegazione di quanto stia succedendo risieda nella politica fiscale, lo prova anche la divergenza dell’andamento dei margini tra Usa e Europa dopo la crisi del debito pubblico del 2011/2012, dovuta alla politica di ”austerità” nel nostro continente, a differenza degli Stati Uniti.

C’è dunque troppa attenzione alla politica monetaria, e troppo poca a quella fiscale, che in questo momento sono però confliggenti.

Un mix potenzialmente molto pericoloso per i paesi altamente indebitamenti come il nostro, perché le banche centrali rischiano di dover aumentare i tassi di più e più a lungo del previsto per contrastare non solo l’inflazione ma anche gli effetti indotti da anni di straordinaria espansione fiscale.

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