L’anno nuovo ci ha portato, finalmente, l’auspicata inversione di tendenza per l’inflazione. Sia negli Stati Uniti che nell’eurozona i tassi di crescita dei prezzi si mantengono su livelli elevati (6,5 per cento e 9,2 per cento rispettivamente a dicembre); ma secondo le previsioni, a fine 2023 l’inflazione sarà tornata a livelli molto più ragionevoli.

    Si tratta ovviamente solo di previsioni, ma è chiaro che il picco è dietro di noi.

    All’inversione di tendenza segue l’inevitabile coro in lode delle banche centrali. Dopo le esitazioni iniziali, l’aumento deciso dei tassi avrebbe riportato sotto controllo le aspettative, causato un rallentamento della domanda, e fatto venir meno la pressione inflazionistica.

    Anche i recentissimi cali dei tassi di interesse sul debito pubblico sarebbero uno dei dividendi della politica restrittiva e della minore inflazione attesa.

    Non è merito delle banche centrali

    Quest’argomento è fallace: la letteratura empirica ha abbondantemente studiato i tempi di trasmissione della politica monetaria, e quasi tutti gli studi convergono su una forchetta di 12-18 mesi perché si vedano gli effetti sull’economia reale di una variazione dei tassi di interesse.

    Per i paesi in cui i sistemi finanziari sono più sviluppati, in cui è quindi più difficile per la banca centrale influenzare la creazione di credito, il ritardo è ancora più lungo.

    Questo vuol dire che l’impatto della stretta creditizia iniziata nella primavera scorsa non sarà sentito prima della seconda metà del 2023, se non nel 2024.

    Ciò che colpisce è che si tratta di una letteratura ampiamente nota, probabilmente insegnata in classe da molti degli accademici che nei mesi scorsi hanno invocato le politiche restrittive, e che ora in una sorta di dissociazione cognitiva ne vantano il successo.

    A dimostrazione della fallacia dell’argomento, le aspettative di inflazione a medio termine, che non erano esplose verso l’alto quando si gridava che l’inazione delle banche centrali avrebbe fatto partire la spirale prezzi-salari, non sono crollate verso il basso ora che le banche centrali si sono lanciate nella restrizione.

    Il motivo di questa stabilità è che i mercati forse non stanno sui social, ma hanno sempre correttamente interpretato la fiammata inflazionistica per quello che era: il risultato di una serie di shock settoriali legati alla disarticolazione del sistema produttivo, prima durante il Covid e poi durante la ripresa. Shock esacerbati poi dalla dinamica dei prezzi energetici, in parte dovuta a fattori geopolitici.

    Forse sta succedendo più lentamente di quanto non fosse possibile anticipare prima dell’invasione dell’Ucraina, ma era chiaro che questi shock erano temporanei e destinati a riassorbirsi; le catene del valore iniziano a funzionare come dovrebbero e le tensioni sui mercati dell’energia si stanno attenuando.

    Le banche centrali insomma c’entrano ben poco, come molti ripetono invano da mesi.

    Ora che il cammino verso la normalizzazione è intrapreso, fin dove dobbiamo sperare che cali l’inflazione?

    Questa è una domanda molto più complessa di quanto non appaia a prima vista. Le banche centrali dei paesi avanzati hanno per anni adottato, esplicitamente o meno, un obiettivo di inflazione del 2 per cento, con una giustificazione pratica.

    Si riteneva che esso fosse sufficientemente basso da non perturbare il funzionamento dell’economia, lasciando tuttavia un margine per diminuzioni cicliche che non portassero l’inflazione in territorio negativo, la temutissima (soprattutto per una società molto indebitata) deflazione.

    Verso una “nuova normale”

    Dopo la crisi del 2008, l’allora capo economista del Fmi Olivier Blanchard aveva proposto di aumentare l’obiettivo di inflazione al 3 per cento o al 4 per cento.

    L’economista francese sosteneva infatti che, nella situazione di “stagnazione secolare” e di quasi deflazione dell’epoca, un tasso di inflazione più alto aiutasse a ridurre i tassi di interesse reali e a sostenere una domanda cronicamente depressa.

    Oggi il tema di un obiettivo di inflazione più elevato si ripropone.

    Intanto, perché non è detto che a medio termine il rischio di stagnazione secolare, sia sparito. Ma non è questo il solo motivo per cui le banche centrali dovrebbero forse puntare a tassi di inflazione più elevati; ce ne sono almeno altri due.

    Il primo è che l’economia mondiale sembra essere entrata in una fase turbolenta, con shock a ripetizione, squilibri accumulati nei decenni scorsi (ad esempio le disuguaglianze) i cui nodi vengono al pettine, instabilità geopolitica e incertezza, transizione ecologica, e via di seguito.

    Un’inflazione in media al 2 per cento garantiva margini adeguati di aggiustamento quando le fluttuazioni di Pil e prezzi erano limitate (durante il periodo detto della “grande moderazione”); ma un margine più ampio potrebbe essere necessario nei prossimi lustri, quando dovremo probabilmente convivere con fluttuazioni più significative.

    C’è poi una seconda ragione, meno ovvia, per desiderare tassi di inflazione in media più elevati.

    La pandemia, la tumultuosa e difficile ripresa, la crisi energetica e alimentare, ci stanno abituando a shock fortemente eterogenei, con eccessi di domanda e di offerta settoriali che convivono.

    A questo si aggiunga che la transizione ecologica dovrà implicare dei fortissimi aggiustamenti tra beni e tra settori (più viaggi in treno e meno in aereo; più energie rinnovabili e meno fossili...).

    Insomma, rispetto al passato, i prossimi anni vedranno la necessità di forti aggiustamenti dei prezzi relativi.

    Essendo i prezzi più rigidi al ribasso che al rialzo, si potrebbe avere un aumento dell’inflazione media pur non essendo cambiata la domanda totale ma solo la sua composizione settoriale.

    In secondo luogo, come evidenziato già all’inizio degli anni Duemila dal premio Nobel Akerlof, se il tasso di inflazione medio è più elevato, gli aggiustamenti dei prezzi relativi possono avvenire senza che per alcuni beni il prezzo cali ma semplicemente che aumenti meno del prezzo degli altri.

    Insomma, che ci aspetti un ritorno alla stagnazione secolare, o invece un’era di instabilità e di cambiamenti strutturali, ci sono molti argomenti per rivedere l’obiettivo di inflazione del 2 per cento (che, ribadiamolo, non ha alcuna giustificazione teorica).

    Nell’eurozona la determinazione del tasso di inflazione obiettivo è appannaggio della Bce.

    In questo momento di cambiamento di paradigma e di transizione da un regime all’altro, è auspicabile che l’istituto di Francoforte rifletta ad un cambiamento del proprio obiettivo.

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