Un Borghese piccolo piccolo. È questo il tratto reiterato, ostentato, sbandierato con orgoglio, con vivida lucidità da Giuseppe Conte. Non un uomo “senza qualità” secondo i canoni di Robert Musil, ma spregiudicato, flessuoso e adattivo a ogni stagione politica, sempre al posto giusto.

Dopo un lustro nella politica attiva non si conoscono le idee sui fondamentali della politica, sulle questioni divisive: per lui Emmanuel Marcon e Marine Le Pen pari sono. Due volte presidente del Consiglio, senza dire pubblicamente per quale partito abbia votato nel 2018 e in passato, ha assunto la guida del Movimento Cinque stelle benché riluttante sul tesseramento. Politico prepolitico prima che a-politico.

Ha svuotato il tratto movimentista e ribellista del M5s conferendogli un’aura ministeriale, presunta austera, recidendo i canali popolari dell’esperimento grillino.

Conte ha anche le caratteristiche del politico neofita, perfette in una fase storica di rigurgito anti élite, di rivolta delle masse, come nel celebre saggio di Ortega y Gasset.

I nemici e gli avversari lo sottovalutarono e lo irrisero: fatale. Sa stare al mondo e usa l’eloquio, il latinorum per imbonire le masse, ma senza condurle in alcun dove.

Il populismo e il qualunquismo

Nella fase populista quei tratti non erano da esecrare, anzi andavano esaltati. Conte saggiamente ne ha fatto un marchio di fabbrica, autodefinendosi «avvocato del popolo». Un difensore contro le angherie della classe politica corrotta e immarcescibile, proprio mentre era a Palazzo Chigi. Un capolavoro di illogica.

Conte è a proprio agio nella palude post-ideologica, mosso da un sistematico movimento oscillatorio.

L’apice del Conte-pensiero si è avuto durante il periodo di confinamento generato dal disastro pandemico. Gli apologeti accreditano Conte di nervi saldi e capacità gestionali; i detrattori di improvvisazione. In realtà, non avendo metri di paragone è difficile argomentare sulle prestazioni. Chiaro è invece il sistematico approccio saldamente ancorato a diffondere ottimismo, auspicabile, ma con il rischio di parossismo.

Eppure, molti sono rimasti folgorati da Conte. «L’uomo politico più impopolare vuole mandare via il più popolare», disse Massimo D’Alema che pure di consensi ne mieté pochini, sia dentro che fuori dal partitone.

In realtà la fascinazione di una componente della sinistra italiana e intellettuale per Conte deriva da debolezza di pensiero politico, incapacità di superare il lutto della diaspora post-comunista e la revanche anti-renziana, che ha certamente motivazioni legittime, ma che offusca l’analisi circa la vera natura di Conte. Che negli anni Settanta a stento sarebbe stato ammesso tra le prime venticinque file di una riunione di sezione di partito.

Insomma, alcuni pensarono si potessero superare le complessità del Pd affidandosi al fai da te delle istituzioni e dei partiti, esternalizzando a prodotti massificati, tralasciando la nobile tradizione politica italiana, e della sinistra, sia socialista che comunista.

La tattica per sconfiggere la destra alleandosi con chi prima sosteneva Salvini è legittima, ma non dovrebbe divenire subordinazione strutturale né dipendenza da una formazione anti-politica.

Conte fa paura per l’ordinario qualunquismo, è perfetto per il mondo descritto da Vincenzo Cerami, di quella borghesia mediocre che tenta di autopromuoversi senza sprezzo della misura. «Mio figlio è ragioniere … il ragionier Vivaldi, permette che le presenti mio figlio, Dottore?».

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