Cos’hanno in comune Čajkovskij, gli eroi russi della seconda guerra mondiale e l’autrice di Harry Potter? Nella visione di Vladimir Putin sono tutte vittime della spietata macchina culturale dell’occidente, che «cancella» ogni contenuto scomodo o non conforme ai desideri degli ambienti progressisti. È appunto il caso di J.K. Rowling, ostracizzata – ha sottolineato il presidente russo venerdì scorso in un evento televisivo  – «solo perché non soddisfaceva le richieste dei diritti di genere».

L’offerta di solidarietà agli artisti occidentali «cancellati», in quello che è descritto come un nuovo rogo dei libri in stile nazista, suona particolarmente grottesca nel frangente della guerra d’aggressione in Ucraina e di una repressione sempre più dura delle libertà fondamentali all’interno della Russia.

Rowling ha infatti risposto prontamente che la critica della cancel culture occidentale non può venire «da coloro che attualmente massacrano i civili», o «imprigionano e avvelenano i loro critici».

Tuttavia, non c’è dubbio che il discorso del capo del Cremlino rivela la sua capacità di mischiare le carte, giocare con le appartenenze, far esplodere le contraddizioni in cui si dibattono pezzi del mondo politico e culturale occidentale.

Perché mette il dito nella piaga di quel mondo liberal-conservatore (indiscutibilmente schierato contro Putin) che appare da anni ossessionato dal pericolo della «cancellazione» di persone ed idee, e agita lo spettro di questa «follia», o «dittatura» o «nuova barbarie» di fronte a ogni critica antisessista, antirazzista o antiomofobica che investe opere del presente o del passato.

Voglio allora tendere una mano a questi critici della cancel culture che hanno forse sentito citare le proprie stesse parole, e che immagino in difficoltà per l’essere associati a un autocrate guerrafondaio. Nel farlo però li invito, dopo questo episodio, all’uso di un linguaggio politico più sobrio e responsabile.

Se l’obiettivo del Cremlino è smascherare l’ipocrisia dell’occidente democratico, è facile replicare notando che, da una parte, la virulenza dei dibattiti in casi simili a quello di Rowling è essa stessa il segno di una libertà d’espressione, pur imperfetta, ma che non ha oggi uguali in Russia. Dall’altra, le posizioni dei critici liberali, pur discutibili, possono difficilmente essere sovrapposte alla difesa putiniana dell’ordine autoritario.

È bene, quindi, non cadere nella trappola di Putin. Ancor meglio sarebbe però decidersi ad abbandonare un’etichetta, cancel culture, che funziona come un significante vuoto, privo di alcun significato definito, e farla finita con le accuse di «illiberalismo» o «totalitarismo» di fronte alle domande spesso legittime dei movimenti sociali di ripensare spazi, rappresentazioni, linguaggi.

I veri pericoli per la nostra libertà, nel mondo reale, sono altrove.

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