La partecipazione di Matteo Renzi alla conferenza del think tank saudita apre il vaso di pandora di un tema mai risolto davvero, in Italia: la regolamentazione del lobbying. Il tema è ancora più delicato se, a essere coinvolto, è un politico in carica come Renzi e una potenza economica e politica controversa come l’Arabia Saudita. Il mercato delle relazioni nel quale Renzi si è posizionato è sicuramente quello più dubbio.

Partiamo dal vettore attraverso cui il principe Mohammed bin Salman ha scelto di comprare relazioni politiche ed economiche sul mercato, ovvero il think tank FII Institute (Future Investement Initiative Institute). I think tank sono un’invenzione anglosassone che si è diffusa in tutto il mondo: sono “università senza studenti” che svolgono attività di ricerca e di promozione delle loro idee. Cercano, in sostanza, di influenzare la politica a partire dai dati. Negli Usa hanno un’antica tradizione e sono finanziati da soggetti privati, con budget – per i più importanti – che superano i 100 milioni di dollari annui. In tutto il mondo molti think tank sono strumento di diplomazia parallela (fanno parlare le élite fra di loro), ma anche di quello che gli scienziati politici chiamano “lobbying indiretto”: il soggetto che vuole ottenere un risultato dal decisore pubblico non solo compie azioni di pressione diretta, ma cerca di creare un clima di opinione favorevole ai propri obiettivi. Conferenze, articoli e tutto il resto.

L’opacità di alcuni modelli di lobbying è ben presentata da due professori dell’Università di Perugia, Enrico Carloni e Marco Mazzoni: un amministrativista e uno specialista di comunicazione, un connubio a questo punto non casuale (parlo de Il cantiere delle lobby, uscito da poco per Carocci). L’opacità aumenta se parliamo di un paese non democratico come l’Arabia Saudita, in cui è impossibile distinguere l’impresa privata dal governo e dalla famiglia reale. Il FII è un’organizzazione non profit che si occupa di sostenibilità ambientale, ma è finanziato da un fondo sovrano. E qui veniamo al punto: seppur lecito, quanto è grave – o dannoso – che un senatore della repubblica italiana che siede nella commissione difesa del Senato (difesa e vendita di armi sono tema sensibile, nelle relazioni fra Italia e Arabia Saudita), sieda nel board of trustee di un think tank di emanazione governativa, e per questo riceva un compenso?

Per molto meno nel 2015, negli Usa, scoppiò un piccolo putiferio, sollevato dal New York Times. All’epoca, il governo norvegese finì sotto i riflettori perché tentò di influenzare i policymaker americani finanziando conferenze sul ruolo della Nato nell’Artico, che si tenevano nei think tank più importanti di Washington. Cosa venne ritenuto inaccettabile dall’opinione pubblica americana, risvegliata dal New York Times? Che un governo straniero, appunto, utilizzasse strumenti di lobbying indiretto per influenzare la politica americana. Oggi siamo di fronte a un caso meno sofisticato. Ovviamente nulla è addebitabile a Renzi: però alcuni stanno scandagliando cosa lo abbia legato ai sauditi in questi anni; altri presentano la decisione del governo italiano di interrompere la vendita di armi all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi come ritorsione per le vicende italiane. La questione è complessa, ma come al solito i buchi della legislazione italiana permettono che si creino delle opacità che non possono essere ammissibili: in altri paesi questo comportamento sarebbe illegale o lunare.

Per eliminare qualsiasi ombra, si dovrebbe dimettere o dal board del FII o da senatore. Anche per difendere il lavoro dei lobbisti di mestiere, sempre nell’occhio del ciclone: vanno imposti confini, e forse potrebbe essere occasione per arrivare a una regolamentazione del settore del lobbying finalmente degna.

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