Sono vegano, pratico yoga, mi appassionano alcune tradizioni filosofiche e spirituali definibili come “alternative”: a causa di questi tratti biografici mi sono trovato spesso a osservare da vicino il comportamento dei cosiddetti no-vax, presenti in altissima percentuale nelle comunità, reali o virtuali, che frequento.

Però sono anche sieropositivo: la scienza mi salva la vita ogni giorno, la ricerca permette alle persone che, come me, convivono col virus dell’Hiv di mantenere un’aspettativa di vita sovrapponibile a quella della popolazione sieronegativa. È forse anche attraverso questa combinazione di contingenze che ho preso ad accorgermi di un certo fraintendimento, tipico negli antagonisti sanitari, legato a ciò significa, debba significare essere “liberi”.

Aggiungere punti di vista non necessariamente deve portare a recidere il legame con la ragione, la quale ci chiede di vedere che il mondo è alle prese con una situazione difficile. Perlopiù i no-vax imbastiscono le loro invettive e modulano i loro comportamenti come se non fossimo alle prese con una pandemia, ovvero pericolo di malattia e morte, nonché di collasso socio-economico, e come se leggi, obblighi e divieti non facessero da sempre parte della nostra vita. Gli stati, la società civile, funzionano così. Se passi col rosso, se evadi le tasse, se violi la proprietà privata, se tiri un pugno, se stupri, vieni sanzionato – devi pagare una multa, subire un processo, scontare anni di carcere. La nostra libertà è soggetta – e direi: per fortuna – a confini, proibizioni, imposizioni. Solo che, mi pare, quelli che già sussistono vengono dati per assodati, resi invisibili dall’abitudine, non accendendo l’allarme dei paladini dell’autodeterminazione.

Ora, se il mondo cambia – e il nostro è decisamente cambiato – può essere che si aggiungano obblighi e divieti in più, nuovi. Non è “dittatura”, non è “privazione dei diritti civili”: è il tentativo – parziale, spesso insufficiente –, di venirne a capo, di occuparsi del mondo. C’è qualcosa di desolante in questo farsi comunità ostile, questo cercare consolidamento identitario contro gli strumenti, più o meno efficaci, messi in campo per superare l’emergenza sanitaria. Qualcosa di desolante, triste eppure comunque umano, e che proprio in quanto tale va visto, compreso e trattato. Un’emergenza nell’emergenza, che ci parla forse anche del bisogno contemporaneo di credere in qualcosa di intenso, assoluto. Un bisogno totalizzante di fede, dentro e contro il marasma comunicativo ed emotivo di questi anni. Una richiesta di agency e insieme di trascendenza, di conquista di un ruolo all’interno di un disegno grande, più grande.

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