Sembra un attimo da quel giorno, quei giorni in cui gli occhi spalancati e le bocche aperte salutavano corse e salti e marce e staffette e insomma tutto quanto mai si era visto su piste e pedane olimpiche: l’Italia che vinceva tanto nell’atletica, lo sport del mondo grande. Sembra un attimo, e invece sono più di due anni, la strozzatura del Covid ha così appiattito il tempo, affollando eventi un tempo rari per recuperare lo stop da lockdown, da fa sembrare i mondiali quasi una routine, un appuntamento stagionale, un tagliando di controllo in vista delle già vicine prossime olimpiadi.

E pensare che quando Primo Nebiolo, genio del bene e del male, li inventò nel 1983, giusto 40 anni fa, i mondiali dovevano accorciare l’interminabile intervallo olimpico, quattro anni per rivedere la meglio gioventù dell’universo affrontarsi nello sport più antico e umano. Ridurre quell’intervallo, offrendo una prova di riparazione di valore assoluto dopo i Giochi, portò l’atletica nell’era della modernità, le fece perdere un po’ di innocenza in cambio di molta visibilità, molto spettacolo, molti soldi.

La fine di un miraggio

Adesso dunque ci risiamo, appena 12 mesi dopo i mondiali dell’Oregon, che avevano già riportato bocche e occhi al loro posto, svegliando gli italiani dal sogno giapponese, che un po’ era anche un miraggio: i cinque ori di Tokyo diventati un oro e un bronzo, un bottino molto più in linea, anzi perfino piuttosto ricco rispetto alle abitudini del Paese. E soprattutto, il crack di Tokyo, Marcell Jacobs, l’uomo più veloce del mondo anche nel comparire sulla ribalta internazionale, lo era diventato anche all’opposto, velocissimo a sparire dai radar: non a perdere, ma proprio a non correre più, piegato da dolori e doloretti durati, con brevi eccezioni, due anni tondi tondi, quelli trascorsi fino a oggi, quando Jacobs tornerà a scattare nei suoi 100 metri.

È inutile, proprio, tornare a chiedersi come sia stato possibile: comparire dal nulla, vincere la gara più bella e impossibile dello sport, tornare nel nulla, il tutto tra silenzi, sospetti (molto più all’estero che in patria), tecnici manager usciti dal controllo pieno della federazione, bollettini medici che alternavano con linguaggio da specializzandi ottimismo e pessimismo, rassicurazioni degli esperti sul motore da fuoriclasse cosmico del campione, purtroppo frustrato da una carrozzeria troppo fragile. Meglio, sembrerebbe, non chiedersi nulla: aspettare e guardare, che magari dal nulla Jacobs tornerà al tutto proprio a Budapest, e allora si potrà dire: visto? È un campione vero, alla faccia degli americani e degli inglesi invidiosi fino a diventare ingiuriosi con i loro sprezzanti sospetti. Si potrà ritornare a parlare del nostro miracolo italiano, della giustizia del talento ritrovato.

Magari dimenticando il principale argomento di conversazione tra chi ha parlato di atletica negli ultimi sei mesi, un campione cui è stata dedicata una serie tv per raccontare che razza di ingiustizia abbia subito, l’Alex Schwazer dopato, redento e poi bruciato dalla mafia dell’atletica e dell’antidoping mondiale, il grande complotto cui stampa e cuori italiani si sono dedicati con tutte le loro forze, fino a ieri. Oggi tocca a Jacobs, contro il quale il complotto, per carità, dev’essere per forza quello della sfortuna che lo ha colpito. Speriamo che finisca. Andasse male, si potrà sempre pensare che in fondo ai Giochi di Parigi manca solo un anno.

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