A Milano da giorni pare che neppure il cielo dia scampo. Ammassi di nuvole incolori, penombra, pioggia perpetua. L’insopportabile sdoppiamento per cui continuiamo ad andare verso un mondo che si sta per fermare – mi annoto su Instagram, nell’unico goffo tentativo di interpretare una situazione ormai fuori misura, per la quale abbiamo solo parole inadeguate, minuscole. Inefficaci.

In quest’ottobre di rimonta della pandemia molti impegni saltano, stanno saltando – nel mio caso: incontri, presentazioni, eventi preparati da mesi – molti altri no, non ancora, e così mi tocca, ci tocca continuare a essere funzionali, procedere rettilinei in direzione dell’ignoto, a fare come se nulla fosse.

Fino a quando, per quanto ancora potrà durare: a lungo, si sospetta, a lungo, si sente dire. Il nuovo mondo – questo è ora il nostro mondo?

Ritorno ai 35 metri quadri 

Vivo in un appartamento di 35 metri quadri con il mio ragazzo e il lockdown della primavera è stato estenuante: in assenza di spazio, il mio lavoro – la scrittura, la lettura –, sovrapponendosi alle sue continue riunioni su zoom, non di rado si è fatto impossibile.

Mi sono messo nei panni dei ragazzi, degli studenti – superiori, università – che vivono in famiglie rumorose e caotiche com’era la mia: in assenza di biblioteche e aule studio, come hanno fatto a studiare? Mi pare che nessuno abbia annoverato anche i loro tra i bisogni silenziati, sommersi da cause di forza maggiore.

Ora il nastro sta per riavvolgersi, un nuovo lockdown è alle porte, e ciò che mesi fa si è proposto a noi come un provvedimento imprevisto, eccezionale, sta iniziando a diventare una nuova normalità, striminzita, paludosa, che inibisce il corpo e la mente in una quarantena soprattutto cognitiva, che, più che di riorientarsi, chiede di resistere, tenere duro.

A oltranza, senza soluzione di continuità. Resistenza in loop, priva di cornici di senso adeguate.

Il fastidio dentro di noi

Intanto il fastidio si radica ovunque, in noi e fuori di noi. Fastidio e rabbia, o desolazione, per il ritorno del medesimo, per la pochezza e la mancanza di cura e immaginazione di una classe politica fiacca e senza lungimiranza, che colpisce – retoricamente e nel concreto – i ragazzi, la notte, regno della colpa, il futuro.

I miei amici e conoscenti più giovani, ventitré, ventiquattro anni, mi mandano i video che si fanno alla sera quando escono violando il coprifuoco, senza mascherina. «Io a tutte ‘ste cose non ci credo», mi dicono nei messaggi vocali, inviandomi link dei deliri complottisti.

Li ho odiati, derisi, poi mi sono fermato. Anche di questo si dovrebbe parlare, di come il nostro reagire di fronte alle istanze innaturali di questa situazione rischi di scavare fossati incolmabili che altrimenti non ci sarebbero stati.

Ho attorno a me alcune persone che, preda di un rinnovato pensiero magico, vedono intenzioni e volontà anche nei fatti impersonali, e si stanno lasciando tentare dalla narrativa antisistema, che mischia anticapitalismo, sovranismo e speculazioni biopolitiche.

Le energie mentali cercano vie di fuga: animare, dotare di agency, un problema significa poterlo combattere di più, meglio. Le relazioni – amicali, in famiglia – possono resistere a tutto questo? Si può giudicare qualcuno dal modo in cui risponde al caos radicale?

La comunità incenerita

Commentando le proteste dei giorni scorsi molti evocano, giustamente, la disperazione sociale e la crisi economica, ma non ho mai sentito dire che semplicemente la gente può rifiutarsi di rinunciare alla libertà, al bisogno primo, originario, di disporre del corpo e della vita dei sensi. Habeas corpus.

Quanta superficialità viene riservata alle nostre condizioni di possibilità sensoriali, cinetiche, spaziali.

Stritolati tra brutalità, insensatezza e retorica assistiamo all’incenerimento della comunità: ognuno si schiera coi suoi interessi, le sue rimostranze. Il rispetto – la «sacra gnosi della distanza» direbbe Cristina Campo, da ciò che non si sa, non si conosce – manca ovunque, manca da tutte le parti.

I mezzi di comunicazione cavalcano le reazioni emotive in un saliscendi intossicante, stordente, il governo e l’opposizione difendono principalmente se stessi, le parti sociali più penalizzate levano grida d’aiuto: in questa sovrattivazione del proprio specifico interesse lo spazio comune scompare.

Acosmia, assenza di mondo, di orizzonte intersoggettivo, pur nel proliferare, più o meno indotto, delle opinioni.

Tante le storie occultate, tralasciate, non scritte: settimana scorsa sono stato dal mio medico di base per il vaccino antinfluenzale – in quanto sieropositivo rientro nelle categorie considerate a rischio.

Mi ha raccontato di una sua collega oncologa che sta vedendo molti pazienti con carcinomi in stadio avanzato: a causa del sovraccarico ospedaliero negli ultimi mesi non hanno fatto i controlli.

Mentre scrivo questo articolo scopro che al Sacco, l’ospedale dove sono in cura, sono stati scoperti diversi focolai di Coronavirus: a breve dovrò tornarci per ritirare, come sempre faccio, i farmaci, e prima o poi spero di riuscire a rivedere il mio infettivologo.

Non faccio gli esami di routine da diversi – troppi – mesi: spero di non avere brutte sorprese.

Sono moltissimi i fili interrotti, e solo alcuni di questo accedono a un piano di rappresentazione pubblica, di visibilità, ma le storie sotterranee non smettono per questo di operare, di agire. La realtà non ha surrogati, come ricordava nelle scorse ore Michela Marzano su Twitter, citando Hannah Arendt.

L’ultimo aperitivo

L'altra sera coi nostri amici ci siamo visti per l’ultima volta nel locale in Porta Venezia in cui andiamo sempre a bere prima di cena. Apre alle 17 e col nuovo Dpcm rimarrà chiuso del tutto.

La proprietaria, di solito sempre presente, non c’era. «Non se l’è sentita di venire», ci hanno detto, mentre attorno a noi molti locali avevano già le saracinesche abbassate.

Poco dopo il mio ragazzo, che ha saputo di essere entrato in contatto con un positivo settimana scorsa su un set fotografico (fa lo stylist), ha ricevuto il messaggio con cui l’unico centro disponibile per il tampone lo avvisava che hanno terminato i test, e sono in attesa di riceverne di nuovi. «Finché non lo faccio non posso riprendere a lavorare» – ma tanto il prossimo lavoro facilmente salta lo stesso. Tutto sospeso, tutto di nuovo sospeso.

Stagliati contro mesi a venire privi di una forma netta, riconoscibile, ci spetta il compito di stare sulla soglia, senza scatti e agguati reciproci. Non è facile, ma è l’unica possibilità per restare umani, come scrive sempre Hannah Arendt nel suo piccolo enorme saggio L’umanità in tempi bui, libro-talismano incentrato sul potere dell’amicizia delle epoche oscure del mondo.

L’amicizia – fondamento di ogni umanesimo possibile – non è un valore alternativo al conflitto: è piuttosto ciò che consente di vivere il conflitto facendone discorso, tenendo insieme le differenze. L’amicizia ha una dimensione politica, perché evita che il legame tra gli esseri umani diventi parola d’ordine o fede dottrinaria. Decostruisce, fluidifica.

È la capacità di attirare nello spazio dell’incontro, del dialogo e dell’ascolto quanto si è inclini a tacere perché non può essere padroneggiato né compreso. Ed è forse, al momento, l’unico investimento per il quale abbia senso rischiare.

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