La rottura del 1994 ha cambiato lo schema di gioco della Prima repubblica. L’introduzione, festosa quanto incauta, di un sistema elettorale sostanzialmente maggioritario ha prodotto una modalità di confronto a somma zero: chi vince, vince tutto. Dietro quel cambio c’era il desiderio di vedere maggioranze alternative che si contendevano il governo: un desiderio comprensibile dopo l’immobilismo dei decenni precedenti, governi tolemaici, imperniati sull’immobile sole democristiano, contornato volta a volta da qualche satellite, senza alternanze possibili.

La nuova offerta politica, coagulata intorno a Silvio Berlusconi si è rivelata il mastice politico dell’ultimo trentennio. Salvo l’incidente del 1996, quando la defezione della Lega di Umberto Bossi ha consentito all’Ulivo di vincere le elezioni (disuniti si perde!), il tridente di destra – post-fascisti, Forza Italia e Lega – affiancato da piccole frange ex-democristiane fino la 2008, si è sempre presentato compatto.

Ha superato indenne anche la buriana grillina. E anche lo scapestrato Matteo Salvini, dopo la perdita dei «pieni poteri», è tornato all’ovile. Nemmeno la divisione tra la partecipazione o meno al governo Draghi – FI e Lega dentro, FdI fuori – ha minato la solidità della coalizione di destra. Hanno marciato divisi per colpire uniti. Perché la destra è cementata da un idem sentire. I flebili lamenti di Antonio Tajani su questo o quello servono solo a evitare di essere travolto dalla marea meloniana. Non vi sono vere linee di frattura in quel campo.

Recupero Pd

E a sinistra? Come è noto, la situazione è ben diversa. Innanzitutto, solo ora il Pd ha riacquistato una posizione dominante nello schieramento. In questi anni è stato sballottato lungo montagne russe di successi e cadute. Il vizio d’origine rimonta al 2008 quando al suo interno alcuni hanno considerato una sconfitta il 33,2 per cento ottenuto alle elezioni di quell’anno.

Poi, il partito è passato dal tonfo bersaniano al ciclone renziano, per chiudere con la doppia débâcle del 2018 e del 2022. Questa discesa è stata frenata, e invertita, dalla freschezza e dalla maggior radicalità della nuova segreteria. Ma per quanto il Pd possa risalire la china, non si vince da soli. Nemmeno in Emilia-Romagna ce l’avrebbe fatta.

I pezzi del puzzle da comporre sono noti, includono la sinistra radicale, i pentastellati ed eventuali centristi che guardano a sinistra. C’è ancora del lavoro da fare per completare il quadro, ma non c’è alternativa: per essere attraente e competitiva l’opposizione deve muoversi su un terreno comune, o quanto meno evitare contrapposizioni al proprio interno. Senza questa immagine di intesa, se non di compattezza, l’elettorato si defila. Non dà fiducia a chi potrebbe dividersi il giorno dopo.

La stagione dell’Unione

Pesa, in questo, il ricordo della coalizione litigiosa ai tempi dell’Ulivo e, soprattutto , dell’Unione. E comunque, per vincere è indispensabile intercettare elettorati diversi, senza strapparseli l’un l’altro, rivolgendosi piuttosto all’esterno, perché le elezioni sono decise da chi riesce a riacciuffare quei milioni di cittadini che sono usciti dalla politica e, seduti sulle rive dell’astensione, aspettano uno stimolo per tornare a votare.

In linea di principio l’opposizione ha buone chance di recupero perché i vari partiti si rivolgono a segmenti elettorali diversi che sono disposti a sostenere un partito della coalizione ma non amano particolarmente gli altri della stessa area.

Mentre a destra i travasi di voti da una formazione all’altra sono fisiologici senza peraltro, e per fortuna, far aumentare i consensi totali, a sinistra c’è molta più “schizzinosità”: piuttosto che sostenere un candidato non gradito, si defeziona. Per esemplificare questa tara, in occasione delle elezioni per il Campidoglio, nel 2008, parte della sinistra si è astenuta dal sostenere Francesco Rutelli, nonostante i suoi splendidi mandati precedenti, perché troppo moderato; e così si è ritrovata Gianni Alemanno.

La differenziazione in termini di bacino di ascolto tra i due partiti maggiori della sinistra, M5s e Pd, è un elemento di forza non di debolezza. Il M5s è diventato il riferimento dei ceti sotto-privilegiati e ottiene particolare favore proprio laddove c’è la maggiore concentrazione di questi ceti, e cioè al Sud.

Il Pd, nonostante la politica di Elly Schlein molto più attenta di prima alle classi popolari, rimane un partito di ceto medio e medio alto, istruito e urbano, e solo nelle sue roccheforti sfonda anche in altre componenti sociali. Il passaggio d’epoca, avvenuto durante la stagione renziana quando interi blocchi sociali hanno defezionato verso il M5s e verso l’astensione, non è stato recuperato.

In compenso il Pd ha mantenuto le sue posizioni nelle Ztl (per semplificare). Tra M5s e Pd c’è quindi complementarietà: si rivolgono a platee diverse, così come sono diversi i linguaggi e le modalità d’azione che adottano. L’importante è che condividano un ampio ventaglio di posizioni. Una credibile alternativa al governo dipende da quanto stretto, ma non esclusivo né escludente nei confronti di altri, sarà il legame tra queste due formazioni.

© Riproduzione riservata