Come tutti voglio la pace, la guerra in Ucraina non piace a nessuno, la crisi energetica ancora meno. Ma ho molte perplessità sulle manifestazioni pacifiste che si preparano.

Su questo giornale Mario Giro ha scritto che «la pace è un affare molto serio da non delegare ai soli responsabili politici. Questo è il senso dell’attuale mobilitazione: fare qualcosa, farsi sentire, gridar».

Le motivazioni per essere angosciati non mancano, il rischio di una escalation del conflitto è sempre stato presente e, a torto o a ragione, ora viene percepito in crescita.

E le scienze sociali, da Albert Hirschman in poi, hanno sempre chiarito che esiste un beneficio intrinseco nella partecipazione democratica: il senso di impotenza di fronte a eventi fuori controllo viene mitigato dalla mobilitazione. Si va in piazza, insomma, per sentirsi meglio, non perché possa fermare le armi atomiche.

In un mondo di solitudini e connessioni soltanto virtuali, le piazze pacifiche sono un bene raro. Ma se guardiamo gli argomenti, gli obiettivi e le possibili conseguenze delle imminenti mobilitazioni pacifiste molti dubbi sono legittimi.

Le grandi manifestazioni simili del passato avvenivano in un altro contesto: il 15 febbraio del 2003 milioni di persone sono sfilate a Roma (sei milioni, si disse all’epoca) contro la guerra in Iraq.

Ma quella protesta era contro un’azione militare di un governo alleato, quello americano, sostenuta da molti governi europei, incluso quello italiano.

Le piazze pacifiste servono, quando servono, ad alzare il costo politico della scelta militare (o quantomeno a renderlo evidente). Così chi vota per la via delle armi ci pensa due volte e chi si oppone può intercettare il voto del dissenso.

Nel caso delle manifestazioni che si preparano, chi è il bersaglio? Dubito che Vladimir Putin possa vederle come un problema, anzi. L’unico costo politico che sale è quello del sostegno militare agli ucraini.

Ci sono una serie di ipotesi discutibili non esplicitate nel messaggio pacifista: che la guerra ci sia anche per volontà occidentale, che qualcuno (Stati Uniti?) voglia una guerra lunga per trarne qualche beneficio, che forse se lasciamo a Putin il Donbass e la Crimea il rischio nucleare si allontana.

Ognuna di queste ipotesi è coerente in una cornice ideologica di pregiudizi anti americani (o filo russi), ma poco suffragata dai fatti.

Putin non ha mai dato la disponibilità a negoziare, gli Stati Uniti hanno messo in guardia in anticipo dal rischio di un’invasione mentre i paesi europei non credevano agli allarmi ed è la Russia a evocare l’atomica, non l’occidente.

Soltanto chi aderisce alla propaganda del Cremlino, come certi opinionisti italiani, può attribuire al presidente ucraino Volodomyr Zelensky il desiderio di continuare una guerra nella quale rischiano ogni giorno la vita lui e tutto il suo popolo.

L’idea che smembrare l’Ucraina sia la premessa per la pace è contraddetta dalla storia (lasciare a Putin la Crimea nel 2014 ha solo messo le basi per un’altra guerra).

Infine, evocare le armi nucleari porta all’apocalisse o al congelamento del conflitto sul terreno perché irrilevante di fronte alla prospettiva dell’annichilimento?

La minaccia della reciproca distruzione tra Stati Uniti e Urss ha congelato lo scontro diretto tra le potenze nella guerra detta appunto fredda, scaricando le tensioni militari su altri teatri periferici.

Le manifestazioni pacifiste sono sempre belle, ma solo in alcuni casi sono utili. Talvolta sono perfino dannose.

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