La sconfitta di Macron segnala innanzitutto un fenomeno di fondo generalizzato, l’astensionismo. Contiene una sfiducia nei confronti delle forze politiche ma anche nella capacità di ripresa della democrazia operante, capace di far crescere le comunità. C’è un altro elemento: l’incapacità delle classi dirigenti europee di trovare una soluzione chiara su come si sta in guerra e come si dovrà uscire verso il dopoguerra.

Le classi dirigenti europee sono ambigue: da una parte accettano la condizione oggettiva dello stato di guerra, dall’altro si rifiutano di avere comportamenti da paesi coinvolti nella guerra. Insomma, ciò che disorienta è che dei tre capi di governo e di stato – di Germania, Francia e Italia – che sono andati a Kiev, due, l’italiano e il francese, pochi giorni dopo si ritrovano azzoppati e ridimensionati. Nell’opinione pubblica è un elemento di sconcerto e di sfiducia.

Nelle realtà nazionali potrebbe germogliare l’idea che si può uscire dallo stato di guerra con paci separate, e con la scomposizione e decomposizione dell’Europa. In Francia la fascia dell’astensionismo più elevata è quella dell’età fra i 18 e i 30. Quando le nuove generazioni si staccano dalle istituzioni siamo allo sbandamento.

Le istituzioni sono un cumulo di macerie dove si aggirano solo cecchini. Così anche in Italia: la discussione nel M5s è paradossale e propria di un corpo disfatto. Da trent’anni la demolizione del sistema istituzionale e politico ha consumato tutto ciò che era stato prodotto di positivo nei decenni precedenti per la difesa della democrazia. Dal punto di vista economico ci troviamo di fronte a un sistema né capitalistico puro, né socialistico dirigistico, né misto, ma alla giornata, dipendente da decisioni assunte in sede sovranazionali e da pressioni di gruppi di interessi assistiti e protetti da consorterie nazionali.

Le offerte politiche tradizionali non sono adeguate: dal 1989, quando il sistema politico è entrato in crisi, il cambiamento è stato affrontato solo sul piano formale con un mutamento dei sistemi elettorali, mentre era necessario adeguare e revisionare l’elaborazione e le ideologie ispiratrici dei partiti di massa. Gli eredi del Pci sono corsi a rinnegare la propria storia e a cancellarla; per farlo hanno concorso a cancellare la storia dell’altra famiglia della sinistra, quella dei socialisti.

La Dc ha perso il ruolo del centrismo attivo, gli elettori sono andati a destra e i capi, per sopravvivere, a sinistra. Di fronte a questo, nel dibattito alle camera in preparazione della riunione del Consiglio europeo, le forze politiche dovrebbero avere un sussulto. Non si tratta di discutere dell’invio delle armi, scelta oggettiva che discende da una condizione di coinvolgimento in una guerra.

Ciò che si deve discutere è se siamo in stato di guerra e se stiamo preparando, con gli alleati, come uscirne quando si tratterà di concorrere alla ricostruzione di un ordine e di una pace mondiale. È l’atto di coraggio che serve Draghi se vuole riprendere la direzione forte di un governo depotenziato da una discussione stupida e falsa.

Lo strapaese

Cadrà la farneticante posizione velleitaria di una bega da strapaese fra Di Maio e Conte, dove il primo ha dimostrato di essere uno svelto e scaltro ragazzo napoletano, capace di riaggiustare la condizione in cui si era infilato; mentre l’avvocato è preso dalla vischiosità degli studi professionali di provincia che hanno un cliente che non devono perdere.

Draghi dovrebbe, con un colpo d’ala, elevare il dibattito e chiedere al parlamento di pronunciarsi sul tema eluso: noi siamo parte essenziale dell’Europa, trascinata in guerra dall’aggressione della Russia all’Ucraina. Da questa guerra, non voluta dall’Europa, si esce solo con un ripristino della situazione pre 24 febbraio.

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