Se c’è uno sforzo a cui è obbligatorio sottoporsi per analizzare in modo scientifico i fatti politici, è saper leggere le cifre. E non solo quelle, sempre controverse, delle statistiche, a cui ciascuno – si parli di immigrazione, di debito pubblico, di criminalità o di infezioni da virus – fa dire quel che preferisce, ma anche gli apparentemente espliciti dati elettorali. Il caso della presidenziale francese non fa eccezione alla regola.

La riflessione sul responso delle urne del primo turno di questa elezione potrebbe arrestarsi ad alcune quasi automatiche constatazioni. Prima di tutto il passaggio al ballottaggio di Emmanuel Macron e Marine Le Pen, con il distacco di quasi cinque punti (27,85 contro 23,15) tra il primo e la seconda.

Poi il notevole successo del radicale di sinistra Jean-Luc Mélenchon, giunto alle soglie del 22 per cento e l’impasse della candidatura di Éric Zemmour (7,07 per cento), ridotta alla metà di quanto i sondaggi gli assegnavano al momento in cui il polemista ha deciso di cambiare mestiere.

Quindi il fragoroso crollo delle portabandiera dei due partiti storici del “fronte repubblicano” – Valérie Pécresse dei Républicains slittata al 4,78 per cento, Anne Hidalgo del Partito socialista addirittura precipitata all’1,75 per cento. E infine il mancato decollo del verde Yannick Jadot e il ritorno dei comunisti di Fabien Roussel a poco più del 2 per cento.

Partita chiusa?

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Tenuto conto del gioco delle indicazioni di voto dei concorrenti eliminati in favore dell’uno o dell’altra protagonista del duello decisivo, la questione dell’esito del secondo turno parrebbe risolta. Per Le Pen si sono infatti pronunciati solo Zemmour e il sovranista gollista Dupont-Aignan (2,06 per cento) e il totale del suo sostegno al momento ammonta al 36,98 per cento: un po’ più della quota raggiunta dalla leader dell’allora Front national cinque anni orsono (33,90 per cento). Tutti gli altri, ad eccezione per ora dell’idolo delle platee rurali Jean Lassalle (3,13 per cento) le si sono schierati contro.

L’idea, suffragata dai numeri citati, che la partita decisiva sia chiusa prima ancora di aprirsi fatica però ad imporsi fra i commentatori. E il primo sondaggio dell’Ifop, l’agenzia demoscopica francese più accreditata, ne conferma i fragili fondamenti, delineando uno sconcertante 51-49 in favore del presidente uscente.

Altri sondaggi prefigurano uno scenario meno improbabile, allargando la forbice fino ad un 54-46, ma lasciano comunque intravedere il rifiuto di una parte non trascurabile dell’elettorato di seguire i moniti dei candidati su cui avevano puntato al primo turno.

Anzi: proprio le inchieste di opinione indicano che ben l’80 per cento di loro non gradisce i consigli o i proclami degli esclusi e intende scegliere autonomamente chi votare.

Un ennesimo segno della sfiducia diffusa fra i cittadini nei confronti della classe politica, che aumenta la sensazione di incertezza. E che chiama in causa quella necessità di leggere le cifre in filigrana a cui abbiamo fatto cenno all’inizio.

Tutte le spaccature nascoste

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Ci sono infatti più modi per interpretare il voto del 10 aprile. Un primo approccio porta a valutare la consistenza di due schieramenti virtuali, che si potrebbero chiamare pro e anti-establishment. Se da un lato si collocano i bulletins de vote a favore di Macron, Pécresse, Hidalgo, e se vogliamo anche Jadot, non si tocca il 40 per cento.

Dall’altro quelli espressi per i candidati che hanno apertamente manifestato la loro ostilità verso la classe politica attuale, si sale oltre il 60. Un dato senza precedenti: nel 2017 i fronti si bilanciavano.

Un secondo elemento emerso dal voto di domenica, sottaciuto da molte fonti d’informazione, appare ancora più esplicito: al primo turno, Marine Le Pen è arrivata in testa in 20.036 comuni sui 35.080 che la Francia conta, poco meno del doppio di quelli i cui elettori hanno preferito Macron (11.861), mentre negli altri 3.183 a prevalere è stato un altro candidato “anti-sistema”, Mélenchon o Lassalle.

Ciò sta ad indicare chiaramente che l’esistenza di una frattura profonda tra una Francia “periferica” e una “metropolitana”, documentata dal geografo Christophe Guilluy nel 2014 e a lungo contestata dalla classe di governo, è una realtà che si va approfondendo. E che, se nelle città le parole d’ordine del cosmopolitismo e del progressismo vantano una forte presa, nelle zone rurali e periurbane l’ostilità verso l’immigrazione e l’attaccamento ai referenti tradizionali dell’identità nazionale si vanno rafforzando.

Cosicché il conflitto tra la Francia “che sta in alto”, la borghesia intellettuale e degli affari, e quella che “sta in basso”, composta da operai, contadini, impiegati e piccoli commercianti, da sempre cavallo di battaglia delle formazioni populiste, tende sempre più a scavalcare lo spartiacque sinistra/destra e a ridurre quell’inibizione a votare per candidati o liste etichettati come di estrema destra che per decenni ha funzionato in via automatica, trasformando il 15 per cento e più raccolto dagli esponenti del Front national al primo turno delle elezioni di ogni ordine e grado in inevitabili sconfitte al secondo.

Il destino degli sconfitti

A questi riscontri empirici ne vanno aggiunti almeno altri due che contribuiscono ad addensare sul futuro del sistema politico transalpino nubi ed incognite, ovvero le conseguenze sia immediate sia in prospettiva che il risultato sta comportando, o comporterà, per gli schieramenti politici che dallo scontro sono usciti con gli esiti peggiori.

Un problema che si è imposto immediatamente dopo la pubblicazione delle stime di voto (che i media francesi preferiscono – non a torto, come si è visto, data la ben maggiore affidabilità – agli exit poll tanto amati in Italia), tanto da spingere alcuni degli sconfitti a parlarne nelle rispettive dichiarazioni a caldo, è il danno economico che subiranno tutti i partiti i cui rappresentanti non hanno superato la soglia del 5 per cento.

La legge non riconosce loro nessun rimborso delle spese sostenute per la campagna elettorale; il che significa, ad esempio, che i Républicains si troveranno con uno scoperto di 15 milioni di euro, che – per ammissione di Pécresse – potrebbe preludere a una vera e propria bancarotta. E il danno sarà forte anche per i più parsimoniosi (ma non troppo) ecologisti, il cui leader si è lanciato in diretta televisiva in un grido di dolore, chiamando i simpatizzanti ad offrire in fretta un sostegno in denaro.

Non è difficile prevedere che gli appelli alla colletta di tutti i relegati sotto il 5 per cento popoleranno la scena pubblica nelle prossime settimane in parallelo a quelli dei due sfidanti del ballottaggio, intenti invece alla pesca di nuovi elettori.

In termini meno immediati, lo scenario delineatosi da poche ore presenta agli sconfitti ulteriori motivi di preoccupazione, legati agli obbligati riassetti strategici.

Nei Républicains, il rischio di una disgregazione interna è già realtà, con il rifiuto di vari esponenti di primo piano – a partire da Éric Ciotti, forte di oltre un terzo dei consensi dei quadri intermedi – di seguire la scelta pro-Macron di Pécresse e della direzione del partito.

A sinistra, l’innegabile exploit di Mélenchon consentirà molto probabilmente alla sua France insoumise di porre, se non dettare, condizioni rigide alle controparti al momento delle trattative per la formazione di liste comuni alle legislative di giugno e, malgrado il molto più forte radicamento territoriale, i socialisti dovranno venire a patti, a costo di spaventare, con l’overdose di radicalismo che questo apporto inietterà alla loro immagine, una fetta del loro elettorato tradizionale.

E i Verdi, che speravano, dopo la conquista delle amministrazioni comunali di varie città importanti nel 2021, di ritagliarsi un ruolo-cardine nella costituzione di quelle liste di unione anti-destra, saranno costretti a ridimensionare drasticamente le pretese.

Intanto a destra

Nel frattempo, sullo sfondo di questi ed altri interrogativi – basti accennare al tema delle difficoltà che il fronte “patriota” certamente incontrerà nel far fruttare nelle future elezioni dell’Assemblea nazionale i dividendi del risultato presidenziale, data l’acrimonia regnante alla base fra le truppe mariniste e zemmouriste e i colpi di spillo che da destra ha iniziato a vibrare il sindaco di Béziers Robert Ménard, fino a ieri aspirante federatore della droite hors les murs e oggi convertitosi a suo revisore e moderatore, in una sorta di versione transalpina di Gianfranco Fini – Macron e Le Pen iniziano a darsi battaglia, cercando proseliti nel campo d’Agramante.

Significativamente, il primo ha iniziato a battere gli impervi sentieri del nord deindustrializzato, dove operai e disoccupati fanno la forza dell’avversaria, mentre la seconda cerca di riscuotere qualche consenso in più nella Parigi che insiste a voltarle le spalle. La partita è per lei più dura, ma niente sembra oggi così scontato come un paio di settimane fa si sarebbe scommesso. 

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