All’inizio del percorso della legge di Bilancio, il governo Meloni prometteva: questo è solo l’antipasto, il grosso arriverà nel 2023. Quella che a ottobre pareva una promessa, ora è una minaccia. Adesso che la manovra ha compiuto il suo primo, e unico, iter parlamentare e si appresta ad andare al voto si capisce che è il primo, vero, fallimento dell’esecutivo.

Stretto tra inflazione presente e possibile recessione futura, il governo Meloni ha varato una manovra da 26 miliardi al netto degli interventi per il caro energia, con un aumento dell’indebitamento di 21 miliardi di euro. Si diceva: questa è la manovra di Mario Draghi, perché i saldi di bilancio Giorgia Meloni li ha ereditati e non può fare molto. Invece ha fatto moltissimo.

In meno di un mese il governo Meloni ha dimostrato che idea di desta ha: favorire gli evasori, punire i poveri, ignorare il welfare e smontare le misure popolari dei governi precedenti.

L’aumento del tetto al contante, i tentativi (per ora falliti) di alzare la soglia che fa scattare l’obbligo di accettare pagamenti col Pos, lo scudo penale per chi ha evaso il fisco (saltato, ma tornerà, vedrete).

 E poi l’accanimento sul reddito di cittadinanza, per toglierlo alla categoria tutta teorica dei poveri sfaticati: nell’ultima versione scatta l’obbligo di accettare qualunque offerta di lavoro, congrua o meno, per i percettori.

Senza che nessuno abbia mai fornito uno straccio di dato sulle offerte intermediate dai centri per l’impiego che vengono snobbate.

Idee confuse

L’esecutivo ha dimostrato di voler cambiare tutto ma di non sapere come fare, non soltanto per mancanze di coperture: legittimo ridiscutere il bonus cultura per i 18enni, 500 euro a tutti a prescindere dal reddito e dal bisogno, ma invece della cancellazione sta emergendo uno schema così burocratico e farraginoso che scontenterà tutti (un bonus ai redditi bassi, uno a quelli più bravi).

Le misure universali vanno a troppi e costano tanto, ma almeno si riescono ad applicare, tutte le “migliorie” targate Meloni sono farraginose e nessuno sa come e quando verranno applicate come il “reddito alimentare” per i poveri più poveri, proposto peraltro dal Pd Marco Furfaro: soltanto 1,5 milioni di euro la dotazione, ci pagheranno i cappuccini ai poveri.

Che senso ha mettere in piedi l’ennesimo strumento anti-povertà da zero quando mentre si svuota quello già rodato del reddito di cittadinanza? I più bisognosi tra un po’ avranno bisogno di un commercialista per orientarsi.

Giorni e giorni di polemiche partoriscono zero dal punto di vista della visione complessiva della legge di Bilancio, e soltanto la solita pioggia di provvedimenti mirati a precisi gruppi di interesse, come lo stanziamento da 1,5 milioni per le vetrerie di Murano o i 2,5 milioni per la confederazione nazionale delle Misericordie.

Le sole cose di sostanza sono sul fisco, come l’espansione della flat tax agli autonomi fino a 85.000 euro, che è al contempo un premio alla parte del mondo del lavoro che più evade e un disincentivo a crescere o un incentivo a evadere ancora di più, visto che nessuno dichiarerà mai redditi sopra gli 85.000 euro.

L’antipasto

Tutto questo è soltanto l’antipasto di quello che arriverà nel 2023? Sì e no. Nei prossimi mesi ci saranno meno soldi a disposizione, non di più, perché l’economia italiana è al bivio tra inflazione e recessione, in un caso aumenteranno i tassi di interesse sul debito pubblico con i rialzi della Bce, nell’altro frenerà la crescita, che al momento è prevista soltanto allo 0,6 per cento.

Però quello che stiamo vedendo è l’antipasto dell’incapacità del governo Meloni di governare: la premier ha provato ad accentrare la politica economica a palazzo Chigi, ma poi ne ha subito perso il controllo e così si è visto un ministro dell’Economia di esperienza come Giancarlo Giorgetti paralizzato.

Senza coperture, senza mandato politico per trovarle, assediato dai partiti della coalizione e dalle opposizioni senza riuscire a tenere sotto controllo le pressioni, per finire con addirittura emendamenti sbagliati per 450 milioni di euro da correggere. In tempi risicati servono pure voti aggiuntivi per rimediare a errori che hanno pochi precedenti.

«Ci tocca rimpiangere i Cinque stelle», dicono i tecnici dei ministeri che mai avevano visto un simile tasso di dilettantismo, peraltro da sedicenti professionisti della politica.

Se questo è soltanto l’antipasto, l’indigestione nel corso del 2023 è garantita.

Il presidente Sergio Mattarella avrebbe molti elementi per respingere una manovra di questo genere, che include perfino il diritto a sparare (e mangiare) i cinghiali in città, ma non lo farà per timore dell’esercizio provvisorio. Di certo, però, la sua firma non lascerà tracce di entusiasmo sulla pagina.

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