Sono passati più di quindici giorni dalla cattura di Matteo Messina Denaro e, a freddo, si può aggiungere qualcosa fuori dalla tempesta di voci che ha accompagnato il clamoroso avvenimento di un latitante preso dopo trent’anni.

In verità non è che si siano placate le polemiche sull'arresto, al contrario si è radicalizzato lo scontro fra chi insinua che vi sia stato l'ennesimo patto fra stato e mafia e chi invece rivendica l’azione di una classica operazione di polizia felicemente conclusa.

Da una parte e dall'altra si usano toni aspri, complottisti e sostenitori a difesa dell'indagine da manuale dei carabinieri del Ros, magistrati ed ex magistrati che si sfidano a colpi di dichiarazioni, insomma un muro contro muro che non aiuta a capire.

Il ventriloquo a gettone

A rimescolare ancora di più le carte la preveggenza di Matteo Piantedosi che, qualche giorno prima della cattura, si era augurato «di essere il ministro dell'interno che arresterà Messina Denaro». Sapeva, non sapeva? E poi le visioni di quel personaggio doppio e triplo che è Salvatore Baiardo, ormai unanimemente indicato come “portavoce dei fratelli Graviano” ma probabilmente anche di qualcun altro. Per come si presenta e per come parla e non parla, questo Baiardo è malfido.

Di certo, come hanno scritto sul Domani Giovanni Tizian e Nello Trocchia, è un miracolato: favoreggiatore di boss stragisti, Baiardo ha subito una condanna dove gli è caduta pure l'aggravante mafiosa. Il “portavavoce dei Graviano” è un ventriloquo a gettone.

All'inaugurazione dell'anno giudiziario di Palermo il procuratore capo Maurizio De Lucia ha concluso, fra gli applausi, il suo intervento: «Questa cattura è un successo dello stato, basta con le speculazioni che gettano ombre su un'attività investigativa impeccabile e trasparente». Probabilmente De Lucia ha ragione, perché conosce ogni piega dell'inchiesta, sa esattamente com'è iniziata e come si è sviluppata.

I fatti valgono sempre

Da quel poco che è dato conoscere all'esterno, mi sono fatto l'idea che le cose siano andate come ci vengono consegnate nella pur parziale versione ufficiale. A garanzia di tale ricostruzione c'è il rigore di Paolo Guido (il magistrato che per vent'anni ha dato la caccia al boss di Castelvetrano) e, soprattutto, c'è il sapere dei procuratori palermitani, memori dei pasticci e degli inganni intorno all'arresto di Totò Riina.

Nessuno, a Palermo, si sarebbe mai infilato in un altro intrico dalle imprevedibili conseguenze. Lo darei per scontato.
Detto questo, bisogna però considerare anche le modalità dell'arresto e la stessa anomala condotta del mafioso. I fatti sono fatti dice il procuratore De Lucia, che si muove nei confini delle sue carte e non può farsi inghiottire dalle dietrologie. Ma i fatti valgono sempre, anche quando riportano agli istanti immediatamente antecedenti al fermo.
Dalle immagini abbiamo assistito a una cattura molto morbida, senza stress. E poi ci sono quei selfie con i medici che lo avevano in cura, c'è quel messaggiare permanente con le pazienti.

È evidente - come si può negare? - che il modo di agire di Messina Denaro non fosse quello di un super ricercato ossessionato dalla sicurezza. Per un mafioso sono “irregolarità” comportamentali che non si possono ignorare: proprio perché sono fatti.
Non credo che ci sia stata una trattativa fra Messina Denaro e i carabinieri (e men che meno con i magistrati), però non escluderei del tutto che una trattativa ci sia stata invece fra mafiosi e mafiosi. Dentro Cosa nostra, solo in Cosa nostra. Il latitante era diventato un peso, per ciò che rappresentava e per la malattia che l'aveva fiaccato.

Senza nulla togliere ai meriti dei carabinieri, senza rimestare per forza nel torbido bisogna prendere atto che qualcosa di inconsueto è successo. Ignorandolo con ostinazione, potrebbe far venire qualche dubbio.

Scena molto siciliana

In questi giorni un amico mi ha segnalato un passo di un romanzo di Andrea Camilleri. Domande e risposte fra un mafioso, un imprecisato Tano, e il popolarissimo commissario Montalbano. Ecco il dialogo.
«E io qua sono, commissario, per farmi arrestare da lei. Ho voluto vederla apposta».

«Poteva venire al commissariato e costituirsi. Qui o a Vigàta è la stessa cosa».

«Eh no, duttureddru, non è la stessa cosa, mi meraviglio di lei che sapi lèggiri e scriviri, le parole non sono uguali. Io mi faccio arrestare, non mi costituisco».

Scena molto siciliana. Il romanzo, Il cane di terracotta, è del 1996. Dai libri si può imparare sempre qualcosa.

 

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