Sicura e sorridente, Giorgia Meloni ha prestato giuramento al Quirinale come presidente del Consiglio dei ministri. «La prima donna» sono le parole più ricorrenti nel coro di rallegramenti che ha accolto la nomina.

Era dal 1946 che un ritratto femminile attendeva di essere aggiunto alla galleria di soli uomini che hanno guidato governi. Si tratta, dunque, di un risultato lungamente atteso. Eppure la novità che questo evento porta con sé, la sua portata «storica» evidenziata da più parti, resta aperta a una lettura ambivalente.

È stato difficile nelle ultime settimane non provare un moto di ammirazione per la fermezza mostrata da Meloni di fronte alle pressioni e ai boicottaggi dei suoi ingombranti alleati.

Altrettanto difficile, però, è provare simpatia per la “prima donna” ora che, svelate le carte, forma un governo molto maschile e nel segno della destra più reazionaria, specialmente in relazione ai capisaldi dell’ideologia conservatrice.

Tra questi la “famiglia naturale”, a presidio della quale è stata nominata ministra Eugenia Roccella, militante dei movimenti pro-life e anti-gender.

Se qualcuno si era illuso che l’elezione di Ignazio La Russa e Lorenzo Fontana a presiedere le due camere avesse neutralizzato in ruoli istituzionali l’anima più identitaria di questa maggioranza, sarà costretto a ricredersi.

Il “soffitto di cristallo” sta andando in frantumi, ma sembra che le sue schegge siano destinate a provocare molte ferite.

Mentre i cocci da raccogliere restano a tutte e tutti coloro che hanno creduto, e ancora credono, nei processi di liberazione collettiva, per le donne e non solo.

Potremmo trovarci di fronte al caso – solo in apparenza paradossale – di una donna che accede al potere non per aprire la strada a tutte le altre, ma per renderla più impervia.

Questo non solo a causa degli orientamenti del suo governo in materia di diritti delle donne e delle minoranze, ma anche per l’esempio che la stessa Meloni rappresenta.

La leader di Fratelli d’Italia rivendica la propria ascesa come un successo personale, da attribuire interamente alla capacità di competere con gli uomini, senza relazioni politiche al femminile.

Il suo è un modello di emancipazione individualistico, che non promuove nessun empowerment collettivo, mentre rimuove la storia delle donne che l’hanno preceduta e denigra gli strumenti per l’equilibrio di genere nella rappresentanza, pensati per favorire la partecipazione paritaria in applicazione della Costituzione.

È un modello capace di esercitare un gran fascino, anche nel campo avversario, dove già si odono le invocazioni di “una Meloni di sinistra”.

Però smettere di ragionare in termini di ostacoli strutturali e soluzioni collettive segnerebbe il trionfo dell’egemonia culturale della destra nel paese. E con ciò un ulteriore rallentamento nel cammino delle donne.

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