Siamo ancora nel pieno della ricorrenza ebraica di Hanukkà, nota all’immaginario collettivo come la festa del candelabro.

In Italia, la ricorrenza (è sbagliato dire festa o festività perché Hanukkà non rientra in questa categoria) è stata segnata dal discorso tenuto da Giorgia Meloni nella sinagoga centrale di Roma, alla presenza della presidente della comunità ebraica romana e delle massime autorità ebraiche, a partire dal Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni.

Un discorso, a suo modo storico, viste le origini politiche di una presidente del Consiglio cresciuta nel solco del razzista e antisemita Giorgio Almirante.

Anzitutto, al netto delle omissioni, dei silenzi, delle rimozioni messe in luce su queste pagine da Daniele Susini, io mi permetto di andare controcorrente rispetto alle generali considerazioni fatte anche da altri intellettuali ebrei critici delle parole di Meloni e considero il discorso della premier una vittoria che sancisce la regola per cui chi vuole partecipare al gioco politico in Occidente, non può permettersi di strizzare l’occhio all’antisemitismo.

Come quando la stessa premier definiva George Soros un usuraio et similia che non perdiamo tempo a citare.

Il problema, a mio giudizio, è il contenuto del discorso di Meloni, che ha rappresentato, fermandosi al significato più immediato purtroppo divulgato anche in ambito ebraico, Hanukkà come momento di difesa della tradizione e di resistenza al tentativo di assimilazione ellenica.

Facile, dunque, il parallelo con quella che Meloni stessa ha definito «resistenza all’omologazione».

Facile, insomma assumere la ricorrenza ebraica come modello della battaglia identitaria che la destra occidentale sta combattendo. Has ve Halila, si usa dire in questi casi, il cielo non voglia!

È vero che con Hanukkà si celebra la resistenza ebraica al tentativo di assimilazione ellenica.

È vero, dunque, che si tratta di una difesa. Ma difesa di cosa, resistenza a chi?

Ciò che difendevano i sacerdoti asmonei asserragliati nel Tempio di Gerusalemme era il culto del Dio unico davanti al quale siamo tutti uguali, al di là di genere (Adamo non era un uomo ma un androgino), origine etnica o religiosa (il Santuario di Gerusalemme, una volta a settimana, era aperto al culto delle altre fedi).

Non, quindi, la difesa di una tradizione, ma esattamente l’opposto: la difesa dei diritti di ogni individuo rispetto all’oppressione delle tradizioni. E a cosa resistevano?

Alla forza assimilatrice ellenica, che voleva sottomettere la pluralità dei popoli all’identità ellenica, secondo la tipica mentalità imperiale, di cui gli ellenici saranno insuperati maestri.

È davvero sgradevole questo tentativo sempre più esplicito della destra occidentale di strumentalizzare l’identità ebraica in chiave politica, per non dire biecamente elettorale, come potesse portare acqua al proprio mulino.

Ancor di più, spiace che nessuna della grandi autorità ebraiche lì presenti abbia fatto notare che l’ebraismo è una religione (soit disant) fondata sull’ideale della libertà, e così storicamente assunta.

Ci scordiamo i gospel degli schiavi neri nei campi di cotone intitolati a Mosè?

Così come bisognava ricordare che l’identità ebraica si costruisce a partire da momenti di distacco (da Ur dei Caldei, dall’Egitto, da tutte le forme di idolatria).

A volte penso che queste origini siano state dimenticate dagli stessi ebrei, che si sono ben presto allineati al culto «alieno» dell’identità.

Tecnicamente parlando, il discorso di Meloni è stato un Hillul HaShem, una profanazione del Nome, tramutando quel Dio che espianta in un idolo ben impiantato per terra.

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