Il New York Times dedica un articolo al violento scontro in atto tra l’amministrazione Trump e alcuni giudici federali che si ostinano a disapplicare i balzani ordini esecutivi, emessi dallo stravagante neopresidente e che colpiscono per la maggior parte programmi di finanziamento per i settori più disagiati della popolazione americana.

Sono così smaccatamente illecite e offensive le disposizioni del magnate che finanche la Corte Suprema, dove lui ha piazzato in gran parte magistrati conservatori, ha confermato a stretta maggioranza la decisione di un tribunale statunitense che aveva annullato l’ordine presidenziale di congelare i fondi destinati al programma di aiuti internazionali Usaid.

Trump ha incassato, ma almeno non ha dato in escandescenze, visto che ha che fare con giudici da lui scelti. In Italia, dove Trump ha più di un fervente ammiratore, a partire dalla presidente del Consiglio, non ci facciamo mancare niente e se possibile miglioriamo.

Le uscite scomposte sul caso Diciotti

Il governo per bocca della premier Giorgia Meloni e dei due vice, l’immancabile e ormai incommentabile Matteo Salvini e il sedicente moderato Antonio Tajani, sono insorti contro un provvedimento emesso nientemeno che dalle Sezioni unite civili della Suprema Corte di Cassazione.

Nel dubbio che non lo sappiano (loro e i seguaci) conviene ribadire che trattasi addirittura del supremo organo giurisdizionale italiano, quello chiamato dall’ordinamento a garantire l’uniformità dell’interpretazione della legge e a verificare che i giudici inferiori la applichino correttamente, oltre che a tutelare come giudice di ultimo grado la libertà dei cittadini. Non esiste giudice di rango più alto se non la Corte Costituzionale, per intendersi.

Nove distinti giudici, quanto di meglio si presume la cultura giuridica del paese abbia prodotto, apostrofati dall’autorevole giurista Giorgia Meloni di aver pronunciato «un principio risarcitorio assai opinabile…in contrasto con la giurisprudenza consolidata».

Ohibò, in realtà, quegli austeri signori si sono limitati a enunciare alcuni principi, in perfetta coerenza con precedenti pronunce della stessa Cassazione e dei giudici di merito in materia di immigrazione.

Il caso era quello della motonave della guardia costiera italiana cui nel 2018 l’allora ministro dell’interno Salvini aveva vietato l’attracco per dieci giorni «per difendere i confini italiani».

Nove pacifici magistrati, non diciamo dei descamisados, in poco più di trenta pagine hanno ribadito concetti abituali, e cioè che dei migranti, alcuni dei quali, quantomeno, in teoria aventi diritto a trovare asilo e protezione, non potevano essere abbandonati al loro destino, perché ciò avrebbe violato l’art.13 della Costituzione, l’art. 5 della Convenzione dei diritti umani (tutela della libertà personale) e diversi trattati internazionali.

I limiti alla libertà di un governo

Non entra purtroppo nella testa degli autorevoli giuristi che onorano l’esecutivo Meloni che la libertà di un governo non è illimitata, ma trova un limite nel diritto degli altri. Se in mezzo al mare vi fosse anche un solo disperato in fuga dalle persecuzioni e dalla morte, egli avrebbe comunque diritto a un giudice che decida del suo destino e della sua salvezza. Per questo sono nati gli Stati di diritto, perché la vita di ognuno di noi non sia in balia del mare e di un tiranno.

A render paradossale l’ira del governo vi è il fatto che nel collegio vi era lo stesso presidente che aveva emesso nella medesima materia un provvedimento salutato da Meloni&Co. come il riconoscimento della legittimità di definire «i paesi sicuri». Ovviamente non era vero nulla, era l’ennesima manipolazione della realtà, perché tutti i giudici (tribunali e corti) dicono la stessa cosa da mesi.

Giorni fa i vertici dell’avvocatura penalista italiana sono andati a Palazzo Chigi («Le facce allegre da italiani in gita», direbbe Paolo Conte) a ringraziare per la concessione della sospirata separazione delle carriere. Giustamente. Per l’occasione, con un po' di pudore, hanno ricordato alla premier la gente che si uccide in carcere e bene avrebbero fatto a ricordare quella che muore affogata.

Garantire il diritto al giusto processo è sacrosanto, ma è una piccola parte, non tutto. Fino a quando si può far finta di non vedere la continua compressione dello Stato di diritto e l’aggressione ai giudici colpevoli di difendere i diritti,  come è successo addirittura alla Cassazione e come magari accadrà domani a un avvocato di una causa scomoda?

Fino a quando si può ignorare ciò che dice il grande David Grossman, «La verità è una. Una sola, non due. Vivere senza verità, o con qualche sua briciola, qualche suo frammento, con una verità tosata o potata è difficile. Perché un pezzo di verità non è più verità»?

© Riproduzione riservata