Nessuno un anno fa avrebbe scommesso che il governo Meloni avrebbe avuto così pochi problemi sul Pnrr, soprattutto a livello di rapporti diplomatici con Bruxelles e di fiducia sui mercati.

Diversi fattori hanno giocato a favore dell’esecutivo: una Commissione che ha creato il piano e non ha alcuno interesse nel vederlo fallire nel paese più grande e più esposto sui mercati; le elezioni europee alle porte che sconsigliano al partito popolare di inimicarsi il governo italiano; l’inflazione e la crisi energetica che hanno imposto la necessità di poter rivedere i piani; eventi internazionali che hanno modificato agenda e priorità politiche.

C’è anche in questa tranquilla navigazione la capacità di lavoro del ministro Raffaele Fitto, abile nelle negoziazioni con i tecnici della Commissione e nel dare ritmo al governo al fine di centrare gli obiettivi della fase intermedia. Un potenziale disastro è stato fino ad oggi evitato, con terza e quarta rata raggiunte e la quinta a portata di mano. Ma il cielo non sarà sereno per sempre. Come rilevato dalla Corte dei conti nella sua ultima relazione, lo stato italiano è in ritardo per quanto riguarda la spesa dei fondi. In altri termini ciò significa che riforme, leggi, obiettivi vanno ora realizzati con rapidità impiegando sul campo le risorse previste dal Pnrr.

È noto che questa sia per l’Italia la parte più difficile sia perché come rileva la Corte il personale pubblico non è abbastanza qualificato, mancano tecnici e ingegneri, sia perché la trasformazione di regole in organizzazione è spesso troppo formalistica e farraginosa. Il governo, dunque, dovrà chiudere le modifiche al piano nelle prossime settimane e poi focalizzarsi sulla realizzazione.

Si vedrà nelle prossime settimane se e come il ministro Fitto avrà razionalizzato la panoplia di opere e politiche pubbliche previste dalla versione iniziale del piano trasformandole in qualcosa di più organico e sostanzioso.

Ciò che è evidente però è la mancanza di politica industriale nel Pnrr che ha oramai caratterizzato tre governi: nel piano italiano c’è molto cemento segmentato in piccole opere infrastrutturali e pochi incentivi per le aziende ai fini dell’investimento, dello sviluppo tecnologico e della qualificazione della forza lavoro. Il governo Meloni, d’accordo con la Commissione Europea, ha migliorato alcuni aspetti organizzativi, ma non è riuscito ad incidere molto su questo punto. Inoltre, se nell’ultimo anno e mezzo il Pnrr è stato condizionato dall’inflazione, che ha costretto a ridurre gli obiettivi e le ambizioni, dal 2024 potrebbe scontare una possibile recessione. Ciò può significare, ad esempio, che molte aziende appaltatrici dei lavori pubblici potrebbero entrare in crisi con un conseguente rallentamento dei lavori.

Già negli ultimi mesi l’aumento dei tassi e quindi del costo del debito ha in parte trasformato il Pnrr in un ammortizzatore per i conti pubblici e con una eventuale recessione c’è il rischio che l’impatto sulla crescita economica sia minore di quanto stimato. Non è da escludere uno scenario da incubo sia per il governo che per la Commissione Europea tra il 2024 e il 2026: recessione, attuazione del piano in ritardo, difficoltà nel raggiungere le ultime rate, effetti positivi sul Pil limitati, scetticismo da parte dei mercati internazionali.

A quel punto l’Italia si ritroverebbe con cantieri e opere incompiute per lungo tempo, aziende in difficoltà, politica industriale evanescente e un debito pubblico di sempre più difficile gestione. Il governo cammina su un filo e molto del suo futuro successo o insuccesso dipenderà dalla gestione e dall’attuazione del Pnrr.


 

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