Quando si guarda alla Lega non bisogna mai dimenticare il contesto politico in cui quel movimento era nato: una risposta antipolitica alla crisi dei partiti della prima Repubblica negli anni ottanta, un laboratorio politico partito dal governo locale. L’elemento del movimentismo dal basso e quello del governo hanno sempre convissuto nell’epopea leghista.

Dapprima c’era l’idea federalista, la grande riforma istituzionale pensata dallo scienziato politico Gianfranco Miglio come mezzo per liberare l’Italia dal clientelismo e dalla spesa pubblica fuori controllo. «Roma ladrona» era un slogan antipolitico per attirare elettori delusi da governi inconcludenti e da una economia che già alla fine degli anni ottanta iniziava a stagnare.

Quella Lega si occupava, nelle sue varianti più estreme, di una fantasiosa secessione e del respingimento degli immigrati ma non si curava affatto dall’Unione Europea che anzi all’epoca pareva proprio un esperimento federale di quelli che aveva in mente Miglio per il nostro paese. La grande riforma federalista resterà sempre un’utopia, e poco otterrà la Lega sull’autonomia, mentre di più i leghisti spunteranno sull’immigrazione con la legge Bossi-Fini.

La seconda fase

A partire dal 2008 però la Lega perde la sua spinta propulsiva e tra la malattia di Bossi e scandali di piccolo cabotaggio il partito finisce sul lastrico nel 2012. Qui entra in gioco il giovane Salvini, a cui i big leghisti avevano messo in mano un partito da rifare, che però ha l’intuizione non soltanto di sfruttare senza remore i nuovi social network ma anche di ribaltare il messaggio leghista: da contro Roma a contro Bruxelles, dal federalismo all’euroscetticismo, dal Nord all’Italia intera.

La formula funziona perché il neo-nazionalismo di Salvini sfrutta un momento di crisi di tutte le democrazie occidentali tra il 2013 e il 2018. La Brexit, la vittoria di Trump, l’ascesa di Le Pen e AfD tutti alleati veri o presunti della nuova Lega. Un partito che si nazionalizza, si personalizza attorno al segretario e che soprattutto imbraccia battaglie radicali come quella contro l’euro.

La strategia paga tanto che la Lega diviene il primo partito del centrodestra, va al governo con un’altra forza dell’antipolitica come il Movimento 5 Stelle, raggiunge il 34 per cento dei consensi alle elezioni europee. Salvini nel 2019 sembra il padrone politico dell’Italia, nonostante le tante inimicizie internazionali ed europee, fino a quando una serie di errori strategici non ne decretano il declino con la fine del Conte 1.

La fine del movimentismo

Forse è in quel frangente che la Lega capisce che l’animo movimentista al governo, in un paese a sovranità limitata e stretti margini di manovra, non può funzionare. E che le battaglie contro l’euro, la chiusura dei porti, i toni duri con Bruxelles non pagano. Ecco allora che l’altro ramo, quello di governo, prevale pur lasciando intatta la leadership di Salvini.

L’emergenza pandemica offre un momento ideale per la rivirginazione dei leghisti: in maggioranza nel governo di Mario Draghi cosicché nessuno in Europa possa accusare la Lega di essere inaffidabile o destabilizzante. La mossa costa cara in termini elettorali. Dalla rivoluzione anti-euro al sostegno a Draghi è un salto troppo lungo e tanti elettori iniziano a guardare altrove. Ne guadagna Giorgia Meloni che, con la linea della coerenza anti-inciucio, si presenta all’elettorato con idee simili ma con un profilo più credibile di Salvini.

Le elezioni 2022 sono un bagno di sangue per la Lega che scivola al 9%. E l’ultimo anno ci mostra di nuovo una Lega a corrente alternata. Salvini accetta subito la leadership di Meloni, si mostra pragmatico nelle trattative di governo, ottiene molto in termini di ministeri. Nei primi mesi la Lega evita polemiche con il resto della maggioranza e il suo leader evita sortite politiche dirompenti. Sembra una Lega diversa, un partito trasformatosi in un “secondo violino” di governo.

Ma la Lega non può rinnegare se stessa e allora ecco gli ultimi mesi di ritorno alla lotta: contro la BCE, contro Gentiloni, poi la “dichiarazione di guerra” all’Italia dei trafficanti di migranti, il rilancio dell’autonomia e la richiesta di ridurre le tasse e aumentare le pensioni. Infine, il ritorno anche della Lega a livello internazionale: dopo due anni di silenzio in cui Salvini ha dovuto scontare l’eccessiva vicinanza a Putin, oggi divenuto pubblicamente indifendibile, il leader leghista rilancia il gruppo europeo Identità e Democrazia.

I leghisti scommettono sulla crescita della destra estrema, AfD e FN, e sull’ennesimo accordo col fiato corto tra popolari, socialisti e liberali a cui opporsi. Per questo Marine Le Pen torna a Pontida e i leghisti hanno di recente sottolineato la propria vicinanza alla destra nazionalista tedesca. La Lega, dunque, resta il solito enigma, scissa tra Giorgetti e Salvini, tra regioni e Roma, ma un punto fermo in questi mesi c’è: Matteo Salvini vuole mettersi alla destra di Fratelli d’Italia e lì recuperare del consenso rispetto a Giorgia Meloni. Se ci riuscirà per il governo potrà essere destabilizzante.

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