Vent’anni dopo il conferimento all’avvocata Shirin Ebadi, il Nobel per la pace viene assegnato a un’altra attivista per i diritti umani dell’Iran. E, tredici anni dopo quello al dissidente cinese Liu Xiaobo, un altro Nobel per la pace va a una persona in carcere. Che rischia dunque di non poterlo ricevere nelle sue mani.

Annunciato con emozione dalle parole “Donna Vita Libertà” pronunciate da Berit Reiss-Andersen, presidente del Comitato assegnatore, il Nobel per la pace 2023 va dunque a Narges Mohammadi, una figura di enorme spessore nel movimento globale dei difensori dei diritti umani.

Una decisione di grande importanza, una scelta giustissima non “contro” ma “per”: non contro l’Iran ma per i diritti umani.

La scelta del Comitato ci dice, come già in occasione dei Nobel dello scorso anno, che i diritti - di cui viene giustamente evidenziato il declino, così come della democrazia – dovrebbero essere un elemento fondamentale per la costruzione e il mantenimento della pace e che questa è minacciata non solo dalla guerra ma anche dalle “ordinarie” violazioni dei diritti umani, come le uccisioni di manifestanti e l’uso della pena di morte: i due temi cui Mohammadi ha dedicato la sua vita, “lottando contro l’oppressione delle donne in Iran e per promuovere i diritti umani e la libertà per tutti”, come si legge nella motivazione del Comitato.

La comunità dei difensori dei diritti umani in Iran è sotto attacco da decenni e Mohammadi non è l’unica ad aver pagato un prezzo altissimo. I primi nomi che vengono in mente sono quelli di Nasrin Sotoudeh e di Atena Daeni, ora fortunatamente non più in carcere.

Mohammadi ha poco più di 50 anni e, di questi, sono molti di più quelli delle sue condanne rispetto a quelli che ha trascorso in libertà. Se i calcoli sono esatti, in cinque diversi procedimenti giudiziari ha subito condanne complessivamente per oltre 30 anni di carcere.

La vita di Mohammadi è una porta girevole: dentro il carcere, fuori dal carcere, dentro un ospedale, fuori dall’ospedale. Attualmente sta scontando un cumulo di condanne per un totale di 10 anni e otto mesi, con varie sanzioni aggiuntive: 154 frustate, due anni di “esilio interno” fuori dalla capitale Teheran, dove risiede normalmente; due anni di divieto di appartenenza a movimenti della società civile; infine, altri due anni di divieto di rilasciare interviste o pubblicare contenuti sulle piattaforme social.

Le accuse, sempre le stesse. Quelle con cui si riducono al silenzio i difensori dei diritti umani, ridicole e pretestuose: “fondazione di un gruppo illegale”, “reati contro la sicurezza nazionale”, “diffusione di propaganda contro il sistema”. Il tutto per aver rilasciato interviste ai principali media internazionali o aver incontrato rappresentanti degli organismi intergovernativi, aver invocato l’abolizione della pena di morte, aver preso parte a manifestazioni pacifiche per i diritti delle donne, in un periodo - la fine dello scorso decennio - in cui erano frequenti gli attacchi con l’acido nei loro confronti o aver svolto sit-in di protesta in prigione.

Il trattamento in carcere è disumano. Nel 2021 Mohammadi ha trascorso 64 giorni in isolamento nella sezione 209 della famigerata prigione di Evin, in una cella con le luci al neon accese 24 ore al giorno, sottoposta a torture durante gli interrogatori. Per oltre due mesi non ha avuto alcun contatto con altre persone, salvo i secondini che la portavano in bagno.

Mohammadi è gravemente malata, soffre di embolia polmonare e di un disturbo neurologico che le provoca convulsioni e paralisi parziale temporanea. Nel 2022 ha avuto ripetuti attacchi di cuore. Non avrebbe mai dovuto mettere piede in carcere e rischia di perderci la vita.

La speranza è che il Nobel per la pace riaccenda i riflettori sulla sua vicenda e che spinga le autorità iraniane a porre fine all’accanimento nei suoi confronti. In che modo? Scarcerandola e permettendole di recarsi a Oslo per ritirare il premio.

Sarà importante che la comunità internazionale prema sul governo di Teheran affinché ciò accada. Ciò che, invece, non accadde nel 2010, quando le autorità cinesi resistettero alle blande pressioni ricevute e non consentirono a Liu Xiaobo di uscire dal carcere per ritirare il premio. Come sappiamo, Liu morì nel luglio 2017 in un ospedale, dove era stato trasferito in condizioni irrimediabili solo un mese prima.

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