Deve essere “senza se e senza ma” la condanna degli eccidi di Hamas. Una condanna sincera, partecipe, non al modo di un atto dovuto, per poi passare ad altro. La condanna di chi si mette nei panni di un paese che sente minacciati la sua stessa esistenza e la incolumità dei suoi cittadini.

Una intima partecipazione che tuttavia non rinunci a contestualizzare e a interrogarsi sulle radici remote e recenti del conflitto Israelo-palestinese.

Per comprendere, non per giustificare ciò che è ingiustificabile per definizione ovvero l’abominio e l’orrore del 7 ottobre. Fa riflettere la circostanza che Intellettuali ebrei illuminati, laici e di sinistra, da sempre impegnati nel processo di pace con i palestinesi e severamente critici con i loro governi, hanno lamentato un difetto di comprensione per lo choc subito da Israele.

Anche se non è facile, è tuttavia un preciso dovere quello di non farci travolgere dalle emozioni e dal sentimento di vendetta ma di elevarci al livello della ragione, aiutando a farlo le parti che stanno dentro il conflitto e ne patiscono le conseguenze sulla propria carne. La Ue, con più libertà e credibilità degli Usa, ancorché priva di un pari hard power, potrebbe esercitare sulle parti il suo potere (soft) di influenza e di persuasione. Facendole entrambe consapevoli che la sicurezza degli uni è indissolubile dalla sicurezza degli altri.

Memoria indelebile

Mai dimenticare che nella memoria indelebile e bruciante di Israele stanno secoli di persecuzione e di diaspora culminati nello sterminio della Shoah. Sull’altro fronte, l’esodo forzato e l’oppressione del popolo palestinese, l’occupazione dei coloni, decenni di non applicazione delle risoluzioni Onu, la colpevole, trentennale rimozione della questione palestinese. Altrettanto doveroso considerare la pari dignità di tutte le vittime e nutrire la medesima pietà verso di esse.
L’amicizia con gli ebrei non ci esonera dal dovere di rimarcare un fatto: ovvero la violazione dello ius in bello (l’assedio e l’ostruzione agli aiuti umanitari a Gaza) da parte del governo israeliano. Così come la evidenza che la reazione di Israele si sia spinta decisamente oltre il principio della proporzionalità. Singolarmente grave da parte di uno Stato democratico (non di un manipolo di terroristi) che abita il consorzio civile delle nazioni. In tema di proporzionalità, lo so, la terrificante contabilità delle vittime civili non è tutto, ma deve pur contare qualcosa.

Estirpare Hamas è impresa difficile, non solo per ragioni tecniche, ma anche perché esso è qualcosa di più di una formazione terroristica (anche se, sia chiaro, come in questo caso, compie efferate azioni terroristiche), ma è anche una formazione politica con un suo welfare informale che le procura consenso. Dunque non la si elimina con le sole armi.

La risposta

Nella sua risposta alla strage del 7 ottobre, Israele dà l’impressione di non disporre di visione circa il dopo a Gaza. L’azzardo di entrare militarmente esigerebbe invece una idea di come uscirne politicamente. Sembrano cadere nel vuoto gli appelli di Usa e Ue alla moderazione.
«Non ripetere gli errori Usa» ha ammonito lo stesso Biden con chiaro riferimento alla reazione americana all’11 settembre 2001. Né si è prestato ascolto a Onu e Corte penale internazionale. L’azione militare di Israele sta acuendo il suo isolamento internazionale.

Lo si evince anche dall’esito delle votazioni in sede di assemblea Onu. Al punto che Putin ci si è cinicamente infilato spacciandosi per uomo di pace. A consuntivo, il rischio è che, nella sconfitta di tutti, con costi umani di proporzioni spaventose, il solo a vincere sia proprio Hamas. Il più ostile a una soluzione politica del conflitto che si fa sempre più remota.
Chi vuole la pace deve fare lo sforzo di comprendere le ragioni di tutti. Da non confondere con reticenza ed ignavia. Cioè senza rinunciare a chiamare le cose con il loro nome e a prendere parte quando è necessario. In primo luogo la parte di tutte le vittime innocenti. 

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