12 ottobre 2023, segnate questa data. È il giorno in cui la presidente del consiglio ha trasformato la Repubblica italiana in un luogo molto simile all’Ungheria del suo amico Viktor Orban. Un paese, insomma, in cui la libertà di espressione smette di essere un diritto della collettività ma diventa un privilegio concesso solo agli ultras della maggioranza di governo, platea dalla quale è escluso chi dissente. 

In un paese democratico, con una storia di giornalisti uccisi da mafia e terrorismo, se la donna più potente d’Italia, la premier, ritiene legittimo portare in tribunale un intellettuale critico del governo, accusandolo di diffamazione, è una sconfitta al di là dell’esito. Meloni avrebbe potuto ribattere a Saviano in qualunque sede, nelle piazze, sui social con i suoi milioni di fan, nelle tv che controlla, nelle radio amiche, sui giornali conservatori (la maggioranza). Avrebbe potuto schierare una potenza di fuoco senza pari per replicare a Saviano e alla sua aspra critica sintetizzata in quella parola «bastardi», rivolta al governo dopo aver visto un servizio di Piazza Pulita in cui veniva mostrato il corpo di un bambino morto dopo uno dei tanti naufragi. A quel «bastardi», Meloni avrebbe potuto rispondere pubblicamente, avrebbe potuto fa rispondere il partito, gli alleati, i giovani studenti di area. Un esercito che è maggioranza contro un solo intellettuale. Eppure ha scelto la denuncia, l’intimidazione via carte bollate, per dare un messaggio a lui e a tutti gli altri, inclusi i giornalisti, che pure ha denunciato per diffamazione. Una premier senza freni. Un governo senza limiti, visto che oltre a Meloni anche due ministri hanno querelato Saviano: Matteo Salvini e Gennaro Sangiuliano, quest’ultimo uscito sconfitto in primo grado, da ministro in carica ha persino promesso di ricorrere in appello. Non sono gli unici, molti del governo nel primo anno a Palazzo Chigi hanno usato la querela o la minaccia di denuncia contro i giornali. 

La sindrome dell’underdog

Il quotidiano britannico, The Guardian, ha definito «draconiane» le leggi italiane sulla diffamazione in un articolo sulla storia del processo allo scrittore Roberto Saviano, portato alla sbarra dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni, non proprio una cittadina comune, non certo l’underdog che dice di essere. Al contrario in quell’aula era l’autore di Gomorra a essere lo sfavorito, il debole di fronte a un potere che è maggioranza e rappresenta il governo del paese. Ma poco importa, nella narrazione ripetitiva e vittimistica, la presidente continua a pensarsi underdog: prima l’ultima delle ultime che ce l’ha fatta, poi donna tra solo uomini che ha scalato la destra, ora che siede al vertice della piramide del potere e controlla ogni cosa si presenta ancora come vittima di complotti che vede solo lei, di giudici rossi, delle Ong che bramano la sostituzione etnica, di giornalisti comunisti. Insomma, è sempre ostaggio di qualche nemico esterno. L’approccio è utile per parlare di altro, per evitare di confrontarsi con l’inadeguatezza sua e dei suoi ministri di fronte alla prova dell’amministrazione del paese. 

Ecco perché il processo contro Saviano è una delle immagini più chiare della ferocia di questa estrema destra al potere, allergica alle critiche, pronta a tutto pur di battere l’avversario, trasformato in nemico da abbattere. In nessun paese europeo un presidente del consiglio sognerebbe di portare in tribunale uno scrittore critico verso il governo. L’Italia fa storia a sé: i giornalisti hanno meno protezione dei loro colleghi in Germania, Inghilterra, Francia, Spagna. Da anni chiediamo una normativa che tuteli dalle intimidazioni via giudiziaria. Ma figurarsi quale possa essere l’interesse di chi siede oggi sui banchi della maggioranza nel modificare la legge sulla diffamazione: sono i primi a proseguire con la guerra ai giornalisti che scavano perché non si accontentano della versione rassicurante delle veline di stato. Ministri, sottosegretari, deputati e senatori, minacciano costantemente querele, in alcuni casi le sporgono anche: ne sappiamo qualcosa a Domani, Meloni ha querelato per diffamazione il nostro direttore, Emiliano Fittipaldi, per una notizia vera, esclusiva e documentata.

Naturalmente poco importa ai signori delle querele la veridicità dei fatti raccontati, la denuncia arriva comunque. Perché l’obiettivo di chi querela per diffamazione non è stabilire la verità dei fatti, è intimidire, è provare a esercitare pressioni sul direttore ed editore affinché fermino i cronisti rompiscatole, esercitare pressioni indirette attraverso lo spauracchio di una causa e quindi un esborso di denaro.

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