Il nuovo Patto sui migranti che la legislatura che sta per terminare ci lascia in eredità è un compendio di compromessi al ribasso rispetto al sistema dei diritti umani che dovrebbe guidare l’azione della Ue, secondo i suoi trattati fondativi e secondo la normativa internazionale e i patti che i paesi europei hanno sottoscritto (sui rifugiati, sul cambiamento climatico, in ambito di cooperazione economica e perfino energetica o militare).

Quel patto non va bene nemmeno se si tolgono di mezzo le considerazioni sui diritti umani e si utilizza una logica esclusivamente utilitaristica e funzionale, giacché il nostro vecchio continente ha bisogno di migranti, dei loro saperi, della loro disponibilità. Eppure si preferiscono barriere, limiti, controlli, e si evita di pensare a un orizzonte pluridecennale in cui l’integrazione possa risultare da vie di accesso e riconoscimento regolari, prevedibili, gestite con la visione di una leadership lungimirante, condivisa tra enti locali, nazionali e sopranazionali.

Che questo patto europeo non vada bene me lo raccontano a ogni passo gli operatori locali, i quali toccano con mano sprechi e disfunzionalità in ogni città di frontiera in Italia e altrove; me lo confermano gli studenti che ambiscono a un confronto ragionevole, aperto, informato con i loro pari età del resto del mondo, magari liberati dall’imbarazzo di essere identificati come discendenti dei colonizzatori; me lo ripetono i colleghi il cui impegno solidale viene criminalizzato nelle narrazioni pubbliche e a volte anche nelle aule di tribunale.

In queste settimane quasi ogni giorno mi confronto in un luogo diverso con “pezzi” di società molto diversi tra loro, ma tutti in qualche modo interessati alla questione migratoria. Utilizzando come grimaldello “Quale Europa” – composto dal Forum disuguaglianze e diversità per entrare nel merito delle questioni che il nuovo parlamento europeo potrebbe e dovrebbe affrontare – mi trovo coinvolto in discussioni appassionate con studenti, lavoratori, associazioni, leader religiosi e civici, nonché naturalmente individui e famiglie dal background migratorio. La cosa forse sorprendente e tuttavia incoraggiante è che non manca affatto una chiarezza maturata su basi empiriche di come oggi non funzioni per nulla il “sistema” di gestione del fenomeno migratorio.

Razzismo tollerato

L’esperienza diretta di chi è arrivato nel tempo da est o da sud è diversa, ma invariabilmente intrisa di sconforto per le incoerenze europee verso i paesi d’origine, stupefatta per le modalità con cui le frontiere di fatto vengono spostate sempre più lontano dai paesi della Ue, in Turchia, Libia, Tunisia e altrove, amareggiata per la finta incomprensione delle cause profonde della migrazione.

È una esperienza di fatica, sacrifici, ma ancor più di umiliazione destinata a continuare nei nostri paesi, quando si viene trattenuti in veri centri di detenzione o rimpatriati a fronte di costi assurdi per la collettività.

E poi – se si riesce a rimanere – si deve mettere in conto di affrontare un razzismo tollerato dalle autorità che guidano la narrazione collettiva prevalente; si deve essere disposti a sopportare doppi standard applicati nei fatti alla ricerca di un lavoro, all’esercizio del diritto alla salute, fino al momento in cui forse si può chiedere la cittadinanza, ma si rischia comunque ancora di non essere percepiti come “veri europei” per decenni.

Così davvero non va: chi verrà eletto al parlamento europeo, se viene dal terreno delle nostre enormi circoscrizioni o anche da altri paesi, sa di doversi coordinare molto meglio con le leadership dei partiti a livello nazionale; sa di avere il dovere di monitorare come il nuovo Patto non finisca per distruggere l’inclinazione all’estroversione di un continente capace di guardare avanti; sa che esiste una società civile organizzata che è disponibile a fare la propria parte non solo per offrire servizi di ripiego nel quadro di una linea securitaria, ma anche e piuttosto a criticare, fornire dati, reclamare spazi per migliorare il rapporto tra questo angolo di mondo e il proprio stesso futuro.

Il Patto va rivisto, va imperniato sulla fiducia, non sulla paura, sulle possibilità, non sulle barriere, così che i nostri ragazzi possano continuare o riprendere a essere benvenuti nel resto del mondo, quando quel mondo diventa più asiatico, africano, americano, e noi “mondo minoritario” dobbiamo evitare di imporre, e imparare ad accogliere e apprendere assieme.

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