Un amico, figlio di una staffetta partigiana che ha combattuto a Rimini, mi ha raccontato che il commissario politico di sua madre, Giovanni Fusconi “Isola”, comunista dal 1921 e condannato due volte al confino prima a Lipari e poi a Pianosa, nel dopoguerra fu apostrofato come fascista da una ragazzino che aveva ripreso perché disturbava nei giardini di Cervia.

Credo che questo aneddoto raffiguri bene non solo una certe tendenza umana a trovare le scuse più assurde per giustificarsi pur sapendo d’essere nel torto, ma soprattutto il fatto di come vi sia un continuum di come questi fenomeni siano stati spesso mal comunicati per eccessi di semplificazione.

La mia prima reazione alla vista delle foto che immortalavano i no-vax\no-pass che manifestavano il loro dissenso sfilando come fossero deportati nei lager nazisti è stata di rabbia, una provocazione non accettabile e non tollerabile.

Questo perché non solo è un paragone insostenibile, falso storicamente e un’offesa a chi ha realmente subito del terribile destino, ma aggiungo anche una forma di negazionismo.

Quel corteo derideva e minimizzava l’accaduto, mettendo sullo stesso piano due eventi che non hanno spazi per essere comparati, se non il fatto che testimoniano forti rigurgiti antiscientisti e antilluminismo di matrice cospirazionista, fattori che furono alla base dell’antisemitismo nazista.

Sui social e sui media tradizionali sono piovute forti critiche nei loro confronti, a cui gli organizzatori hanno risposto in maniera senza particolari problemi e senza sentirsi in difetto, tutt’al più cercando di minimizzare gli aspetti più discutibili.

Decenni di banalizzazione

Smaltito il forte disagio, ho incominciato a riflettere sul perché sia stata possibile una cosa genere e sopratutto quali motivazioni hanno determinato quest’azione. La mia risposta è stata che non poteva essere altrimenti dopo decenni di banalizzazione della Shoah e della deportazione e di strumentalizzazione del ruolo di vittime degli ebrei.

La Shoah, ormai da decenni, è diventata il metro di misura di ogni limitazione della Libertà, di ogni persecuzione, di ogni conflitto, gli ebrei e loro genocidio sono diventati il perfetto modello di vittima e di ingiustizia, oltretutto determinando l’errata percezione che una vittima è tale solo se corrisponde a tale modello.

Nel mondo, sempre più spesso, tutti quelli che pensano di subire un torto cercano di equiparare i propri patimenti a quelli degli ebrei durante la persecuzioni, come se fosse l’unico modo per ottenere giustizia, ascolto e visibilità.

Tutte le vittime vogliono essere ebrei, perché essi sono considerati oggi vittime vincenti. Anche questa una deriva storica derivanti da visioni trivializzate, se non consolatorie, della Shoah, atte da chi non accetta il fatto che Hitler ha purtroppo vinto la sua guerra contro gli ebrei.

Questo corto circuito ha tanti colpevoli: i politici che hanno piegato l’avvenimento Shoah ad ogni scopo a loro utile, gli storici che spesso, o non hanno combattuto a sufficienza questa deriva o hanno assecondato le visioni politicizzate e i divulgatori di varia origine che hanno diffuso queste visione emozionale e svuotata di ogni senso reale, solo per citare le categorie più implicate in questo modo di fare.

Tutto, il generico e indistinto non è casuale, è stato messo a confronto con con la tragedia degli ebrei in maniera impropria, non solo eventi riguardanti gli umani, ma anche animali e vegetali. La continua e costante banalizzazione della Shoah ha portato a questo delirio, il greenpass uguale alla stella di Davide e alla deportazione.

Maneggiare la memoria

Questo vale anche per la resistenza, ho ascoltato in televisione un manifestante di Trieste appellarsi allo spirito partigiano per continuare la lotta contro il greenpass. Se vogliamo non rivedere più queste scene che offendono e degradano la nostra storia e le sofferenze di milioni di persone, non è sufficiente gridare alla scandalo o peggio augurarsi che quei figuranti possano vivere realmente l’inferno dei lager per capire cosa fossero realmente.

Non è sufficiente neanche vietare manifestazioni, anche se uno stato antifascista è giusto che dia un segnale in questo senso. Sarebbe invece importante fare autocritica e capire come siamo arrivati a questo, modificando il nostro approccio.

La Shoah è un argomento che deve essere trattato con grande delicatezza, prudenza e rispetto, perché ha toccato la vita di milioni di persone, è un evento che può, anzi deve essere comparato, ma con i giusti criteri e metodi, perché solo così è possibile ottenere una piena comprensione e consapevolezza del reale significato di quell’evento.

Tutto quello che non si dovrebbe più fare è stato già scritto e rimane inascoltato: niente più viaggi della Memoria fatti senza adeguata preparazione storica, non richiudere lo sforzo celebrativo unicamente il 27 gennaio, utilizzare terminologie adeguate, evitare approcci unicamente emotivi, distinguere in maniera chiara tra Memoria e Storia ma più di tutti evitare strumentalizzazione politica di questi eventi storici. Buona parte di queste cose non fanno gioco ai tanti attori che ne fanno parte.

Se un giorno quelle persone saranno chiamate a rendere conto del loro comportamento mi auguro siano condannate a studiare, a leggere Primo Levi, ascoltare Liliana Segre o a leggere un libro di Yehuda Baur o Michele Sarfatti, ma auspico che tutto il modo di comunicare la Shoah, cambi e cambi radicalmente.

Elie Wiesel ci metteva in guardia su questi problemi già nel 1977: L’olocausto non richiama più il mistero dell’anatema; non suscita più paura o tremore, nemmeno insulti o compassione. Per voi è solo una disgrazia fra le altre, in po' più patologica delle altre. Vi entrate e ne uscite, per ritornarvi alle vostre preoccupazioni usuali. Avete pensato di immaginare l’immaginabile, e non avete capito nulla.  (...) Spogliato del suo tema sacro, l’olocausto diventa soggetto corrente, buono per impressionare o scuotere, raccomandato a chiunque cerchi un mezzo per farsi strada, arrivare, produrre sensazione». 

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