Nel diluvio di esperti e pensatori che ci ammaestrano dalla tivù, storici virologi psicologi filosofi, mancano stranamente gli antropologi; eppure sono i soli che potrebbero dirci qualcosa sul relativismo culturale. Da quando nel 2001 quegli aerei sono penetrati in quelle Torri come coltelli nel burro, abbiamo quasi smesso di criticare il nostro sistema di valori per esaltarne invece l’autorità di modello.

Il nostro modo di concepire il diritto è stato promosso a “difesa dei diritti umani”, ciò a cui si appoggia la nostra politica è diventato “la democrazia”, la nostra struttura economica si può al massimo “ritoccare”, il divenire del nostro rapporto tra i sessi è (senza che il dubbio possa intaccarlo) “il progresso”. Mentre nei decenni precedenti si rifletteva sul tramonto dell’Occidente e la deriva culturale che ci stava sgretolando, ora è subentrato l’orgoglio per il nostro essere fari di universalità.

Siamo proprio sicuri? Davvero il nostro aver concentrato tutto sull’individuo, sia pure con slanci di empatia ma sempre come decisione e volontà individuale di amore, è la sola possibilità per il vivere associato? In molti luoghi del mondo, e della Storia, l’individuo è sottoposto al collettivo: alla fratria, al clan, alla tribù – coi guasti che sappiamo, ma anche con l’indifferenza alla morte individuale che ora per esempio dà un vantaggio inestimabile a certe forme di terrorismo.

Morire per un ideale, da noi non usa (quasi) più. Ci affanniamo per conquistare una “coscienza green”, mentre in molte culture del subcontinente indiano o del Sudamerica il rapporto con la Madre Terra è talmente indiscutibile da non concepire nessuna pretesa proprietaria sui suoli.

In molti luoghi dell’animismo africano la presenza degli antenati durante i processi civili o penali è ufficializzata: gli “spiriti” consentono di riconoscere una relazione tra colpa e meccanismi psicosomatici del colpevole con una profondità che da noi nemmeno uno psicanalista di quelli bravi.

Ogni sistema ha ovviamente pro e contro, e può darsi che il nostro sia il più stratificato e complesso; ma dare per scontato che l’illuminismo (col suo corteggio di imperialismo, consumismo e deviazioni tecnologiche) sia l’unica strada praticabile e irreversibile non fa onore alla nostra vantata superiorità.

Dovremmo almeno cercare di capire quanto sia difficile abbandonare strutture di pensiero millenarie (comprese le nostre); dovremmo vergognarci di chiedere che le trasformazioni siano rapide solo perché le condiamo con facilitazioni sessuali ed economiche.

Dovremmo ricordarci, esempio minimo, che nella nostra migliore letteratura il pericolo della musica è stato più volte sottolineato, da Tolstoj a Thomas Mann. Dovremmo accorgerci che ora più ci pretendiamo individui inalienabili e più ci affidiamo ad algoritmi astratti e totalizzanti.

Se dei nostri “valori universali” facciamo una religione indiscussa, allora tra religioni rivelate o ideologiche finisce che gli unici laici saranno i cinesi.  

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