Non sono tempi normali per chiunque debba occuparsi di lavoro. Non lo sarebbero anche senza la pandemia. Per questo il compito di Andrea Orlando, vicesegretario del Pd e nuovo ministro del Lavoro, non sarà affatto semplice.

Dopo due governi in cui il ministero del lavoro era nella mani del Movimento Cinque stelle, che ha nel frattempo espresso anche i vertici di Inps e Anpal, il ministero di via Veneto torna al Partito democratico. L’ultimo parlamentare Pd in quella posizione fu  Cesare Damiano, tra 2006 e 2008.

Guidare oggi il ministero del Lavoro significa accettare la sfida di provare ad attualizzare il pensiero labourista (se così vogliamo chiamarlo). Sarebbe retorica dire che è l’occasione per la sinistra per tornare a parlare di lavoro e al lavoro, perché il quadro in cui si inserisce il ruolo che avrà Orlando è molto più frastagliato.

Da un lato c’è la pandemia che detta buona parte dell’agenda tra gestione del blocco dei licenziamenti, persone che hanno perso un lavoro, altre che non lo trovano e la gestione di alcuni capitoli del Recovery Fund.

Dall’altro lato c’è un governo eterogeneo con una forte guida che difficilmente lascerà grandi eccessivi spazi di autonomia al ministero.

Saranno quindi da analizzare con attenzione i rapporti tra palazzo Chigi, ministero dell’Economia, ministero dello Sviluppo economico e i due ministeri sulla Transizione ecologica e su quella digitale.

Non si comprende ancora quale peso avrà palazzo Chigi in questi equilibri ma è chiaro che maggiore è la frammentazione politica maggiore dovrà essere il ruolo di chi tira le fila. 

Resta il fatto che la sfida centrale è quella di individuare risposte alle urgenze alle quali i partiti popolari, e in particolare la sinistra, hanno sempre cercato di dare un seguito e che negli ultimi decenni sono state invece interpretate, almeno nel consenso popolare, da altre forze.

La pandemia ha esasperato le criticita che il mondo labour non ha saputo governare.

Sono aumentate le disuguaglianze tra lavoratori tutelati e quelli non tutelati, la perdita in un anno di oltre 300 mila occupati con contratti a termine ne è la dimostrazione più evidente.

Aumentano le distanze, in termini soprattutto di opportunità, tra giovani e anziani, tra uomini e donne e tra territori che riescono ad agganciare le nuove catene globali del valore e quelli che invece ne restano esclusi. Tutti elementi di analisi che sono stati e sono al centro del dibattito ormai da molto tempo.

La differenza oggi è che c’è la possibilità, all’interno dei complessi equilibri che abbiamo accennato, di risorse per affrontare questi problemi, viene meno quindi l’alibi dei vincoli economici e il tema resta squisitamente politico nel senso più nobile del termine, ossia di quale visione di sviluppo, innovazione, società possa guidare investimenti e riforme.

Discutere con le parti sociali

I dossier più importanti sul tavolo riguardano tematiche che richiedono una visione chiara dei rapporti tra lavoro, impresa e società. Pensiamo in particolare alla discussione sul salario minimo, sulla legge sulla rappresentanza, sulle politiche attive, sul reddito di cittadinanza. 

Un metodo per costruire questa visione, in un epoca in cui le ideologie sembrano in difficoltà, l’ha suggerito Draghi stesso coinvolgendo le parti sociali. Metodo subito accolto da Orlando stesso, che non ha atteso l'inizio della settimana per convocare i sindacati, anche in questo caso optando per una scelta di campo difficile da ignorare. Ma anche qui occorre attenzione.

L’utilità strategica e pratica del loro coinvolgimento si ha soprattutto se sono soggetti attraverso i quali si leggono i bisogni mutevoli della società, che non si trovano sui libri e sui giornali ma nei territori, nelle imprese, nelle città.

Se al contrario la concertazione si tradurrà nel tentativo di salvaguardia di interessi particolari e corporativi questo sarà un danno per tutti. 

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