«Tutti quelli che ho mandato affanc*** sono al governo». «Ho peggiorato questo paese». «Non sono più in grado di condurre un movimento politico, faccio danni». Per il ritorno in tv dopo nove anni di autoesilio (l’ultima volta era stato nel 2014 a “Porta a Porta” da Bruno Vespa), Beppe Grillo ha scelto il salotto di “Che tempo che fa” di Fabio Fazio, nella nuova casa del canale Nove (e gli ascolti premiano, quasi 2,5 milioni di spettatori e oltre il 12% di share).

Sembra passata un’era geologica, e in effetti da quel momento la politica italiana ha subito smottamenti continui e inediti. Allora, la creatura di Beppe Grillo aveva appena sbancato alle elezioni del 2013, mandando in Parlamento una pattuglia di sconosciuti destinati a occupare la scena negli anni a venire; poi c’è stato l’approdo al governo, l’ascesa di una figura atipica come Giuseppe Conte, le maggioranze variabili prima con la Lega salviniana e poi con il centrosinistra, la morte del co-fondatore Roberto Casaleggio, il crollo diffuso nelle varie tornate amministrative, un nuovo statuto e un nuovo inizio che collocano il Movimento 5 Stelle in una situazione non più pivotale della politica italiana, ma stabilmente significativa.

Beppe Grillo appare più docile, persino fisicamente più esile, si prodiga in pentimenti e ammette fallimenti; per farsi da parte, però, finisce abilmente per prendersi la scena, debordando come nel suo stile e alterando in parte la prossemica rituale ed eterna del programma. Grillo torna all’antico, inscenando un “one-man show” più simile ai suoi vecchi spettacoli che a un comizio, in piedi, prima che Fazio riesca a tenerlo a bada.

Rivendica le sue azioni di dimostrazione del passato (lo scandalo Parmalat, le incursioni ai cda dell’Eni e di Montepaschi, l’iscrizione al Pd in un circolo sardo), passa ai radar i leader pentastellati, da Di Maio («era il più preparato, ci ha pugnalato alle spalle») a Conte, cita Tolstoj per giustificare quei suoi toni sguaiati che lo portarono in cima alle preferenze degli italiani, segno di una «rabbia buona che è necessaria per l’anima».

Non risparmia la senatrice Bongiorno, avvocato difensore nella causa in cui è imputato per stupro il figlio, scivolando nell’italica abitudine di mescolare pubblico e privato; concede spazio all’infanzia ricordando che da ragazzo era compagno di giochi di Donato Bilancia.

Torna sui cavalli di battaglia come l’ambiente o l’informazione; ed è di nuovo il comico che si mescola al politico, l’uomo di spettacolo che si fa guru, una creatura che ha inciso nel profondo nel sentimento degli italiani, spazzando via i residui di un sistema senza però riuscire pienamente a costruirne un altro.

Mentre Fazio si relega al ruolo di spalla (gongolando per aver incassato un altro momento di centralità della cronaca politica e di costume), rimane la sensazione strana di un uomo che prova a riposizionarsi ripartendo dall’antico. Si rivolge alla platea con un misto di superiorità e commiserazione: «Cosa dovrei fare secondo voi?». “Il comico” gli rispondono. Ma forse, è ormai finito il tempo anche per quello.

© Riproduzione riservata