L’emergenza pandemica è coincisa con un ritorno del ruolo dello stato nell’economia e nella società e con la ricerca di una ridefinizione dell’agire di mercato. Il Recovery plan e il Pnrr rappresentano, simbolicamente e sostanzialmente, un cambio di paradigma culturale rispetto al modello di crescita economica e progresso sociale che sembrava, ben prima della crisi sanitaria, aver dissipato l’insieme delle risorse necessarie al suo funzionamento e, dunque, limitato le sue potenzialità future.

Già la recessione finanziaria del 2008 aveva fatto registrare un arretramento economico dell’Unione europea, aumentando le disparità nei paesi e tra le regioni in ritardo. La crisi di legittimazione politica che ne è conseguita ha agevolato, in quel periodo, la crescita dei partiti euroscettici. I movimenti populisti hanno trovato un fertile terreno di rappresentanza tra i gruppi sociali esclusi e marginali, concentrati per lo più in luoghi periferici, dai quali non si avvertivano i benefici provenienti dalla politica di coesione e dalle altre politiche europee.

È in questi luoghi che si rinviene una questione sociale ancora da risolvere, con i divari economici che hanno però assorbito una maggiore attenzione nella politica europea rispetto a quella che meritava la formazione delle estese forme di disuguaglianze sociali che si andavano a costituire in vaste aree regionali. È come se il tema della crescita economica si fosse progressivamente distaccato da quello dello sviluppo sociale.

E ciò malgrado il confronto serrato che si è avuto nelle scienze economiche e sociali, dove differenti approcci teorici hanno tentato di superare la trappola di un riduzionismo economico, inserendo il ruolo avuto dalle istituzioni politiche e sociali, nella spiegazione delle cause dell’ascesa, della stasi o del declino dello sviluppo delle e tra le nazioni.

Un nuovo patto

La pandemia ha rilanciato il ruolo dell’Unione europea e compattato alcune delle tensioni politiche interne. Nell’eccezionalità del momento dovuto alla crisi sanitaria vissuta globalmente, si è trovato lo slancio per una svolta e una ripartenza. Si è ritornati a considerare che crescita economica e coesione sociale sono un binomio inscindibile, rappresentando i due cardini fondamentali delle strategie di policy europea su cui si fa affidamento anche per innescare un percorso di cambiamento dei luoghi rimasti indietro.

Una delle cause dell’abbandono di questi ultimi è connessa all’indebolimento dell’intervento statale, che li ha esposti e fatti colpire maggiormente dai fenomeni di privatizzazione, deregolazione, globalizzazione dell’economia, frammentazione della società civile. È necessario perciò un nuovo passo, più spedito, proprio per sostenere le aree e i territori che arretrano.

Perché anche l’azione dello stato è stata spiazzata da questi processi. Esso stesso si è ritrovato indietro ed ha la necessità di ricostruire un nuovo patto per lo sviluppo che guardi ora all’ambiente, all’inclusione di giovani e donne, a rinnovate politiche per l’industria. L’impostazione e gli strumenti da adottare vanno cuciti sulle specificità dei luoghi, con le politiche territoriali che rappresentano parte delle risposte da usare per difendere le società più deboli dalle pressioni indotte dalla trasformazione delle economie capitalistiche.

Le modalità di interazione tra locale e globale, a causa dell’intreccio di fattori esogeni ed endogeni, investono sia il livello macro sia il livello micro, rendendo più complesse la ricerca delle ragioni per cui le politiche incontrano difficoltà nel ridurre i divari.

Sviluppo e cooperazione

Per questo l’operare congiunto di altre istituzioni di governo dell’economia (oltre il mercato), vanno riconsiderate e adoperate per costruzione di interventi pubblici che valorizzano i fattori materiali e immateriali presenti nei territori. Si tratta di investire su percorsi più socialmente costruiti, più inclusivi.

Lo sviluppo deve essere inteso come un processo fondato sulla cooperazione, ai vari livelli di governo, tra le istituzioni e come un prodotto sociale, il cui punto centrale – tradotto in un programma di politica economica – è quello di «costruire la ricchezza dei luoghi» attraverso l’innalzamento delle modalità di coordinamento della base economica, istituzionale e sociale.

Per ridurre la perifericità dei luoghi, per accorciare la distanza dai centri, occorre un coinvolgimento degli attori pubblici e privati nelle scelte e nell’attuazione degli interventi, con il fine ultimo di generare beni collettivi che incrementino il benessere della cittadinanza.


Da oggi a domenica si svolge a Catania la prima edizione del Festival delle istituzioni. Il festival è organizzato dal Mulino in collaborazione con la Scuola superiore dell’Università di Catania, con il patrocinio di Rai per il sociale, dell’assessorato dei Beni culturali e dell’identità siciliana e del comune di Catania. Paola De Vivo e Gianfranco Viesti interverranno domenica alle 17 alla Villa San Saverio.

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