Veniamo da una lunga crisi della cultura istituzionale. Per individuarne l’inizio bisogna risalire agli anni Sessanta del Novecento. Nonostante il loro contrasto di principio, individualismo metodologico e tradizione marxista hanno giocato un ruolo di deistituzionalizzazione della politica. Entrambi, per motivi opposti, tendevano a svalutare il ruolo delle istituzioni – per la cultura liberale oppressive delle scelte individuali, per quella marxista determinate in ultima istanza dai rapporti di forza economici. Da tutti e due i fronti le istituzioni venivano considerate un blocco rispetto ai bisogni sociali o ai desideri individuali e dunque un potenziale ostacolo alla libertà dei comportamenti singolari e collettivi.

Agli inizi degli anni Settanta questa tendenza antiistituzionale si è radicalizzata in un contrasto frontale tra istituzioni e movimenti di protesta. Se si ripercorre il dibattito di quegli anni lo si vede spaccato in due poli apparentemente inconciliabili: da un lato un’idea puramente conservativa d’istituzione, del tutto incapace di rinnovarsi; dall’altro una serie di movimenti antiistituzionali irriducibili a un progetto comune. In questo modo politica e società apparivano collocate su piani separati e privi di contatti reciproci.

A una logica istituzionale chiusa in sé stessa, incapace di parlare al mondo sociale, si opponeva l’idea che i movimenti dovessero guardarsi dal rischio, sempre presente, di un’istituzionalizzazione distruttiva della loro libertà. Anziché nelle istituzioni, si cercava la libertà dalle istituzioni. Con tutte le differenze interne, le analisi dei  filosofi più rappresentativi del tempo – Sartre, Marcuse, Foucault, Deleuze – muovevano tutte in questa direzione antiistituzionale.

La svolta di March e Olsen

Poi, a un certo momento, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, lo scenario è cambiato. Il libro di James March e Johan Olsen, tradotto da il Mulino col titolo La riscoperta delle istituzioni, segnava, anche sul piano della teoria politica, una prima svolta. Poco alla volta le istituzioni hanno cominciato ad apparire sempre più centrali nelle dinamiche politiche – non semplici contenitori di decisioni prese altrove, ma luoghi deputati alla loro elaborazione e perfino oggetto di opzioni strategiche.

Tutt’altro che neutrali, ci si accorgeva che esse sono non solo lo spazio, ma anche l’esito del conflitto politico. Non per nulla la riforma delle istituzioni diventava, in tutte le democrazie occidentali, oggetto di scontro politico. Naturalmente questo processo di reinvestimento sulle istituzioni non è stato né continuo né lineare. Resistenze, e anche vere regressioni, non sono mancate. Quello che oggi chiamiamo, impropriamente, “populismo” è in fondo l’esito, privo del pathos romantico sessantottino, della tendenza anti-istituzionale dei decenni passati. La Francia è stata bloccata per mesi dalla protesta dei gilet jaunes. E l’assalto di alcuni scalmanati a Capitol Hill, la massima istituzione degli Stati Uniti, è di appena qualche mese fa.

Poi, prima l’esito delle elezioni europee e poi quello delle presidenziali americane hanno dato un segnale in controtendenza. Interrompendo la deriva sovranista e populista, davano la sensazione che, dopo tutto, le istituzioni possano essere trasformate dall’interno. Oggi la consapevolezza del loro rilievo è cresciuta.

Non si tratta solo del “ritorno dello stato” – per riprendere il titolo di un altro libro, recentissimo, di Giuliano Amato (il Mulino). Ma di un processo che va ben oltre i confini statali. Da almeno un trentennio assistiamo a una vera e propria proliferazione di istituzioni indipendenti dagli ordinamenti nazionali e situate in un orizzonte sotto, sopra o transnazionale.

I nuovi attori

Oggi, con la triplice crisi che ha scosso il mondo – economica, pandemica e bellica – gli stati appaiono sempre più insostituibili. Ma non unici soggetti della politica. Da tempo in diversi settori – dal commercio alla sanità, dalla tecnologia alle comunicazioni – le normative statali vengono modificate, e a volte scavalcate, da organismi di vario tipo, anch’essi forniti di requisiti istituzionali.

Come sosteneva il più grande istituzionalista italiano, Santi Romano, ogni ordinamento organizzato è un’istituzione. Perfino un’organizzazione rivoluzionaria, per quanto bandita da uno stato, giuridicamente lo è. Oggi sempre nuovi attori accedono alla creazione delle norme, dando vita a procedure giuridiche trasversali. Basti pensare alle organizzazioni non governative, esterne alla bipolarità tradizionale pubblico/privato. Orientate non a scopi di profitto, e anzi a fini generalmente umanitari, esse costituiscono uno dei più interessanti esperimenti di una prassi istituente innovativa.

Pur essendo formalmente organizzazioni private, perseguono finalità pubbliche. Collocate all’incrocio fra diritto, etica e politica, le ong non rispondono, e anzi spesso forzano le leggi degli stati, riferendosi piuttosto a una sorta di società civile globale, indefinibile in punta di diritto, ma di fatto operante in situazioni di emergenza come guerra, migrazione, carestia, epidemia.

Naturalmente, nell’orizzonte slabbrato dello scenario globale esistono istituzioni di altro tipo, come il Fondo monetario Internazionale o l’Organizzazione mondiale del commercio, per non parlare di lobby e corporation con finalità diverse, non di rado opache.

Come orientarsi?

In questo quadro frammentato e disuguale come orientarsi? Intanto bisogna sapere che le istituzioni non si equivalgono. Esse possono difendere interessi acquisiti o agevolare gruppi sociali svantaggiati. Ma soprattutto cambiano o possono cambiare. Non solo i poteri pubblici, ma anche i cittadini hanno un ruolo, non solo di controllo, in tale cambiamento. Non esistono istituzioni del tutto neutrali, anche nel caso in cui si definiscano “terze”.

Così come non esistono governi puramente tecnici. In tutte le istituzioni agiscono comunque interessi politici prevalentemente rappresentati dai partiti, come spiega bene Gianfranco Pasquino in Partiti, istituzioni, democrazie (il Mulino). Da questo punto di vista va valorizzato il ruolo del conflitto politico – all’interno delle istituzioni e anche su di esse. L’ordine, qualsiasi ordine, è l’esito, di volta in volta provvisorio, di rapporti di forza tra valori e interessi differenti e concorrenti. Ciò significa che, anziché tentare, invano, di arrestarla, conviene valorizzare la dialettica conflittuale, incanalandola in forme politicamente produttive.

Già Machiavelli aveva spiegato che il conflitto sociale a Roma tra nobili e plebei – che ha dato luogo a istituzioni popolari come il tribunato della plebe – è stato il motore della potenza della Repubblica romana. Tutt’altro che neutralizzato, il conflitto politico è situato al cuore della prassi istituente, in una forma che non lascia immaginare un ritorno al vecchio concerto degli stati sovrani – almeno nella forma che abbiamo conosciuto per più di cinque secoli. Gli stati resteranno ancora a lungo, ma in una scena geopolitica, economica, tecnologica ben diversa quella novecentesca.

La mia impressione è che neanche la pandemia, che pure minaccia di produrre nuove chiusure, possa arrestare sul tempo lungo un processo di universalizzazione sia dei problemi – basti pensare alla crisi ambientale – sia delle possibili soluzioni, come l’impegno per una distribuzione paritaria del vaccino anche nei paesi poveri sta a indicare.

Naturalmente passare dalle parole ai fatti sarà tutt’altro che facile. Ma in questa battaglia le istituzioni giocheranno comunque un ruolo decisivo. Così come nella guerra in corso, che alla fine non troverà una forma di risoluzione se non attraverso una mediazione istituzionali tra organismi politici, alleanze militari, dispositivi economici. Non senza l’aiuto delle organizzazioni umanitarie, già impegnate, sul terreno, a salvare vite umane. Non era questo – la conservatio vitae – il primo compito assunto, alla sua origine, dal vecchio Leviatano?

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