Caro direttore,

ho letto con attenzione la riflessione della nostra ministra dell’Università e ricerca, secondo cui, improvvisamente, l’Italia parrebbe esser divenuta nuovamente attrattiva. In realtà, stando a dati fornitici dal Mef, in risposta a un nostro Question time in Commissione finanze, hanno usufruito della misura del rientro dei cervelli: 1.765 persone nel 2019, 1.329 nel 2020 e 1.701 nel 2021, che hanno prodotto 320 milioni di stipendi lordi, collocati prevalentemente al Centro-nord, e quindi introiti come tasse e contributi versati pari a poco più di 100 milioni.

Risorse legate alla misura di attrazione e rientro, nonostante i numeri non siano esorbitanti. Se, invece, analizziamo i cosiddetti impatriati non accademici parliamo di poco meno di 50.000 persone nello stesso triennio, che hanno prodotto quasi 3 miliardi in redditi, ergo più di un miliardo in tasse. Ciò significa che, stando a dati del tutto incompleti, a mio avviso, con questa misura si sono prodotti introiti, oltre ai consumi ed investimenti personali, corrispondenti a quasi 1,3-1,5 miliardi di entrate non previste per le casse statali.

Analizzando i dati nel loro complesso, risulta che l’attrattività è maggiore nell’ambito extra accademico. Fatto che di per sé testimonia come purtroppo l’Università italiana resti poco appetibile e attrattiva per le tante persone che una volta stabilitesi all’estero difficilmente rientrano. Perché? Facile: stipendi più alti – in molti casi fino a 3-4 volte superiori, basti pensare alla miseria delle borse di dottorato in Italia o degli assegni di ricerca –, certezza e consistenza delle fonti di finanziamento. Sia chiaro, il problema non è la partenza. Anzi, la ricerca per crescere, implementarsi e creare innovazione ha bisogno vitale di mobilità e interscambio.

Mancano, invece, le condizioni per il rientro. Manca un piano organico di assunzioni nell’Università e negli Enti di ricerca, nonostante siano già in atto notevoli pensionamenti, molti dei quali figli dell’ultimo grande piano di assunzioni, datato anni ’80. Mancano un adeguato miglioramento salariale e un piano di finanziamento ed investimenti. Quanto verrà destinato in termini di Pil al mondo dell’Università e della ricerca? Questo governo ci crede, ci vuole investire? O immagina di fare come i precedenti, a dimostrazione dello stato penoso nel quale versa il mondo della ricerca, e non da oggi.

Perché non immaginare, come fanno altri paesi europei, un Fondo nazionale di ricerca, ente terzo che valuti i progetti con scadenze fisse di presentazione e valutazione, dando certezza delle linee di finanziamento e con fondi erogati, a stati di avanzamento annuale? La ricerca con il rimborso postumo non funziona per le casse delle Università, men che meno per le tasche delle ricercatrici e dei ricercatori. Così si crea competitività e quindi innovazione.

Poi ci si può vantare, come fa la ministra, di quanto siamo bravi, italiane e italiani, ad attrarre risorse per la ricerca, omettendo che, a goderne, sono le Università o i Centri di ricerca all’estero, dove queste persone lavorano e vivono. Lo stesso discorso vale per la misura nel suo insieme. Come si può immaginare di ridurre del 40% i vantaggi per chi vorrebbe trasferirsi al Sud – in questi anni poco più del 20% –, non considerare più il carico familiare che consentiva l’estensione del beneficio per ulteriori 3 anni per ogni minore a carico, e immaginare di voler aiutare demograficamente ed economicamente il paese e in esso il Mezzogiorno?

La ministra ha voglia di fare queste battaglie? Avverte la necessità di ingenti investimenti nella ricerca? Nel caso noi ci siamo, pur dall’opposizione, altrimenti dovremmo amaramente constatare che, per l’ennesima volta, questo paese non è in grado di investire nel proprio futuro.

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