In un articolo pubblicato su Domani, Stefano Ungaro detta la linea alla sinistra sui temi sanitari. Le proposte sono chiare: fine dell’autonomia, centralizzazione della gestione del servizio sanitario nazionale e finanziamento pubblico. A supporto di queste proposte ci sono essenzialmente due temi: da un lato la supposta “catastrofe” del sistema sanitario lombardo; dall’altro lato la progressività del sistema fiscale e quindi la redistribuzione dai “ricchi” ai meno abbienti anche attraverso il finanziamento dei servizi, incluso quello sanitario, tramite la fiscalità generale.

Questa linea avrebbe il beneficio di distinguersi radicalmente da quella della destra, dal momento che, sostiene Ungaro, «gli elettori premiano chi ha il coraggio di offrire visioni del mondo diverse ed opposte».

L’effetto mobilità

Innanzitutto, guardando al programma sulla sanità del centrodestra, non sembra che le proposte di Meloni e Salvini siano molto diverse. Questi infatti, tra i pochi punti indicati sulla sanità, sottolineano l’esenzione del ticket su più prestazioni (quindi più finanziamento pubblico, come Ungaro) e non fanno mai riferimento a una maggiore autonomia delle regioni. Al contrario, anticipano il rafforzamento di “piani nazionali” (quindi più centralizzazione, come Ungaro). Forse non si tratta del “buon senso” di Calenda citato nell’articolo, ma sembra possibile identificare se non altro una sorta di senso comune, ben rappresentato tanto da Meloni/Salvini quanto da Ungaro.

Sulla Lombardia basti dire che si tratta della regione in cui le strutture ospedaliere attraggono il numero più alto di pazienti extra regione. I saldi di mobilità sono i più alti d’Italia e non hanno eguali. Nel 2018, questi erano pari a circa 740 milioni di euro per la Lombardia, seguita a notevole distanza dall’Emilia-Romagna e dal Veneto, i cui saldi erano rispettivamente pari a 324 e 141 milioni di euro.

Certamente alcuni problemi descritti da Ungaro, come quello delle liste d’attesa, sono reali. Ma lo sono in Lombardia come nelle altre regioni. Piuttosto che in Lombardia, le “catastrofi” andrebbero forse ricercate in quelle regioni da cui i pazienti sono costretti a fuggire per poter sperare in una prestazione che oltre a essere gratuita sia anche di qualità adeguata.

Lo svantaggio del “tutto gratis”

Sulla progressività delle imposte e il principio per cui i “ricchi” dovrebbero pagare i servizi ai meno abbienti, vanno fatte almeno due considerazioni. Primo, la progressività del sistema fiscale italiano è relegata ai redditi da lavoro dipendente e da pensioni, che generano la maggior parte dell’Irpef.

Quanto dichiarano i “ricchi” e quanti sono? Nel 2020, in Italia le dichiarazioni dei redditi oltre i 100mila euro annui erano circa 460mila (circa l’1 per cento delle dichiarazioni totali) e sopra i 300mila euro annui circa 41mila (0,1 per cento delle dichiarazioni totali).

Non sembra ragionevole credere di poter finanziare i servizi per 60 milioni di persone con le imposte sui redditi di 40mila persone. La seconda considerazione riguarda il fatto che i meno abbienti, in un sistema in cui tutto è gratuito, sono svantaggiati non solo dal fatto che le persone con uno stato socio economico più alto, ovvero quelli che magari pagano già una flat tax dai copiosi redditi da patrimoni (tipo l’imposta sostitutiva sulle rendite finanziarie o la cedolare secca da redditi da immobili), hanno il servizio gratis, ma anche dal fatto che spesso questi hanno un accesso facilitato rispetto alle persone con uno stato socio economico più sfavorevole.

Il paradosso dell’accessibilità

Le liste d’attesa in un sistema in cui tutto è gratuito generano infatti un paradosso: le persone con un alto livello socio-economico vivono solitamente in zone in cui c’è più disponibilità di cure, hanno più possibilità di scegliere e di muoversi verso gli erogatori con tempi di attesa più brevi e dispongono di una rete di conoscenze più ampia che consente loro di esercitare una certa pressione sul sistema. Su questo punto, uno studio pubblicato su Health Policy nel 2018 mostra come per gli italiani a reddito e livelli di istruzione più bassi sia più probabile essere costretti a tempi di attesa eccessivi.

Nel parlare di finanziamento della sanità dunque, volendo distinguersi dal senso comune, si dovrebbe cominciare a parlare seriamente di assicurazioni private. Quanto all’erogazione dei servizi sanitari, la parola privato non appare in nessuno dei programmi elettorali. Anche qui c’è spazio per essere originali, scegliendo di investire su una sana competizione tra strutture pubbliche e private, magari proprio come accade in Lombardia. Ma questa è un’altra storia.

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