La crisi occupazionale che ha seguito, e in parte accompagnato, i mesi più duri del lockdown ha colpito soprattutto i lavoratori poveri, con contratti temporanei, occupati nei servizi. A distanza di alcuni mesi, e in attesa dei numeri sulla fase che stiamo vivendo oggi, il quadro appare chiaro.

Sono molti i dati che mostrano come la scelta di bloccare i licenziamenti si sia tradotta in un mancato rinnovo delle diverse forme di lavoro temporaneo come soluzione che le imprese hanno adottato per tagliare i costi. Così come è chiaro che la scelta di chiudere forzatamente le attività produttive abbia avuto un impatto forte soprattutto nei servizi, le industrie hanno avuto diverse scappatoie per riaprire rapidamente e, in alcuni casi, evitare le chiusure.

Nei giorni scorsi Eurostat ha aggiunto alcuni dati che ci consentono di completare questo quadro e  capire in che condizioni il mercato del lavoro si è affacciato alla seconda ondata del virus.

Si tratta dei dati sull’andamento dell’occupazione suddivisi per tipologia di lavoro, fondamentali per comprendere quanto è mutata la composizione del mercato del lavoro in Italia.

I dati confrontano il secondo trimestre del 2020 con il secondo trimestre del 2019, considerano i mesi più intensi della prima ondata ma non quelli della lieve ripresa estiva che saremo in grado di valutare più avanti.

Un leggero calo è presente in quasi tutte le tipologie di lavoro. Tra i manager ad esempio, si scende di 40 mila unità, nelle professioni tecniche di 100 mila e di 60 mila nelle professioni artigiane. E questo è fisiologico in una crisi così rapida e pervasiva che, ricordiamo, ha ridotto in questo arco di tempo gli occupati di ben 841 mila unità. Ma il calo maggiore si è avuto soprattutto tra i lavoratori addetti alle vendite e nei servizi, diminuiti di 432 mila unità e nelle cosiddette “occupazioni elementari”, diminuiti di 148 mila unità.

Questi lavori “elementari”, secondo una classificazione dell’Organizzazione internazionale del lavoro, comprendono quei lavori routinari e poco qualificati e che consistono principalmente in attività manuali. L’Italia è il paese europeo che ha la quota maggiore, dopo la Spagna, di occupati di questa tipologia, circa il 10,5 per cento del totale.

Un dato che dovrebbe farci pensare molto sulla qualità del nostro mercato del lavoro, anche considerato che in quelle tipologie di occupazioni lavorano una quota rilevante di irregolari.

Cosa ci dicono questi numeri? Che la fase di ripresa non sarà semplice e indolore. Infatti la maggior parte dei posti di lavoro persi si concentrano in lavori temporanei e in quelle occupazioni meno qualificate e che rischiano di essere di più difficile ricollocazione, soprattutto in età avanzata. Si tratta di lavoratori spesso a basso reddito, anche in virtù della forte presenza del part-time, che spesso determina redditi poco sopra le soglie di povertà.

Ancora dobbiamo vedere nei dati gli effetti del blocco dei licenziamenti. Effetti che non paiono essere ancora particolarmente compresi, come se tanti fossero convinti che il sistema economico, di consumi e di domanda, non è stato influenzato dalle conseguenze del Covid-19. Convinzione infondata, come dimostra la spinta alla digitalizzazione che c’è stata nella relazione tra produttori e consumatori.

Il rischio dei prossimi mesi è quindi quello di un impoverimento ulteriore anche di una fascia media di lavoratori, composta da occupati in industrie che potrebbero non sopravvivere al termine della cassa integrazione e da segmenti dei servizi che hanno subito la disintermediazione digitale di questi mesi.

A questo si aggiunge quanto i dati Eurostat certificano, ossia una crisi profonda della fascia più bassa. Il tutto può facilmente innescare da un lato una corsa all’assistenza, con profonde ricadute sulle finanze pubbliche nel breve e soprattutto nel lungo termine. Dall’altro lato può generare una concorrenza al ribasso per quei lavori non automatizzabili ed elementari caratterizzati da bassi salari e spesso dall’informalità.

Preoccupazioni che dovrebbero muovere la volontà di utilizzare i fondi del Next Generation Ue per azioni che possano innalzare la qualità del lavoro mediante investimenti e formazione. Ma per far questo occorre una visione del paese e delle sue prospettive, non certo immutate dopo la pandemia, anche se in pochi sembrano accorgersene.

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